Nel nostro Paese il rispetto delle regole giuridiche e morali da tempo attraversa una forte crisi. Lo si vede in ogni ambito della vita civile e sociale, ma nella professione che tutti noi qui presenti svolgiamo, la gravità è maggiore, poiché, incidendo su diritti assoluti, ne esce minata la convivenza stessa dei cittadini, così come il rapporto fra questi a le istituzioni pubbliche.
Prova di questa trascendenza è lo stato oramai di emergenza continua che il deficit di legalità porta con sé, e che sfocia in un eccessivo “ricorso alla giustizia”, alimentando un contenzioso molto maggiore rispetto agli altri Stati europei, in un circolo vizioso inversamente proporzionale, purtroppo, al “senso di giustizia”.
Questa premessa non per criticare né per elogiare i recenti provvedimenti o le relative proteste, ma per dire che se non si mira a recuperare i valori giuridici e morali fondanti la società -prima ancora che qualunque professione- nessuna riforma potrà mai aiutare e qualsiasi battaglia è destinata all’insuccesso.
Se l’Avvocatura nel suo complesso è considerata una “cerniera” tra Stato e cittadino, tra giudice e cittadino, a maggior ragione lo è l’Avvocatura pubblica, il cui obiettivo primario è quello di impedire alla P.A. di essere debole, più debole di quanto oggi non sia, di rendersi il più possibile impermeabile ad ogni tentazione.
E’ noto sia dalla storia romana, che i maggiori cambiamenti (nelle istituzioni, nella società, nella vita economica, nel modo di vivere e di pensare), seguono alle crisi più profonde: fu così per il tardo romano impero, sfociato nel Medioevo, fu così per la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento, e via via fino alle grosse crisi dell’epoca moderna e contemporanea.
L’emergenza deve allora essere vista come un’opportunità, un modo per riannodare i fili valoriali là dove erano stati lasciati.
Ecco, quindi, che in questo particolare momento in cui il populismo ritiene prioritario strutturare la nostra professione come un “supermercato forense” sul modello “outlet”, ponendo sugli scaffali la “difesa in saldo”, il “3 x 2 difensivo” (vedasi Groupon), è qui che dobbiamo sfoderare le armi dei valori, delle regole morali, della competenza.
E’ qui che la difesa ad personam caratterizzata dal rapporto fiduciario diventa sostanziale e deve coniugarsi con il “concetto di ruolo”. Colui che riveste un “ruolo” deve rispondere a specifiche aspettative: “aspettative vincolanti”, la cui violazione comporta sanzioni, e “aspettative morali”, che si traducono in comportamenti deontologici e valoriali.
Se non ora quando? (va di moda, no?)
in altra occasione ho definito noi stessi come "un esercito di opliti mal equipaggiati, ma coraggiosi, non rassegnati". L’Avvocatura pubblica non vuole rassegnarsi a rimanere sregolata. Il ruolo che esplica è di “professione in senso forte”, in quanto in noi il “ruolo” si impadronisce della persona, perchè nessun lavoratore “è ciò che fa” quanto l’avvocato dipendente, retto e sorretto da un senso di appartenenza ed immedesimazione che ne plasma il carattere.
Mi piace l’espressione con cui Calamandrei definiva gli avvocati (Advocati nascuntur, iudices fiunt), poiché si addice a noi, che malgrado il passare del tempo conserviamo l’entusiasmo, l’ardore, la combattività, l’impulsività. Chiosava Calamandrei: «L’Avvocato è la gioventù del Giudice, il quale è la vecchiaia dell’Avvocato».
Con questa citazione si apre un parallelo, fra l’avvocatura pubblica e il giudice, entrambi schierati a protezione dell’interesse pubblico, e fra noi e l’Avvocatura dello Stato. E’ allora evidente la rilevanza del ruolo dell’avvocato pubblico il quale, stando a monte della dialettica processuale, al pari dei giudici da un lato e degli avvocati dello Stato dall'altro, si pone più di altri nel momento “giustiziale” della posizione giuridica sottostante.
L’interesse primario cui l’Avvocato in generale è chiamato è quello del proprio cliente, cui deve curarne rapporti e conflitti; l’Avvocato pubblico deve invece primariamente curare l’interesse pubblico, che non sempre coincide con l'interesse in senso stretto del proprio cliente, in quanto è al servizio della collettività cui è volta l’azione della P.A., che è al tempo stesso cliente e datore di lavoro.
Mi piace dire che l’avvocato non svolge un lavoro, ma risponde ad una vocazione resa alla collettività.
E’ proprio analizzando la figura dell’avvocato pubblico che emerge chiaro lo stridore fra professione forense e “società di capitali”: l’uomo d’affari è tipicamente “orientato verso l’ego”, il professionista legale per contro è “orientato verso la collettività”. L'attività del primo è regolata dall'art. 41 della Costituzione, l'attività del secondo dall'art. 24, che valuta il diritto di difesa fra i diritti inviolabili.
Rammento che un sociologo americano, Walter Olson, con un saggio del 1992, aveva aspramente criticato lo scenario del mondo forense americano, paragonandolo “a un campo di guerra” in cui uomini d’affari, titolari di imponenti studi legali, inviavano schiere di avvocati spregiudicati (o costretti ad esserlo), a presidiare cliniche e ospedali alla ricerca di vittime per incrementare la potenza economica della società, nell'ottica del marketing forense piú sfrenato. Ovviamente sono i piú giovani ad essere i piú esposti.
Non è questa la passione che ho seguito. Non sono questi i valori che insegnerò ai miei figli. Non si puó trasmettere spacciandolo per valore che tutto possa essere monetizzato, anche il diritto. Perchè cosí si insegne be' solo che la legge non è uguale per tutti, ma è piú uguale per chi ha piú denaro.
Immagino che siffatti sistemi lo spazio per coltivare il rispetto delle regole giuridiche e morali sia piuttosto compresso. Così come compresso in tali sistemi deve essere uno dei doveri principali: l’indipendenza dell'avvocato, che consiste nel preservarsi da ogni interesse personale, influenza esterna, o condizionamento.
Ciò può comportare che la consulenza fornita possa non essere accondiscendente con i desideri del cliente. Che ne direbbe il socio di capitali?
Noi Avvocati pubblici riteniamo di svolgere bene il nostro “ruolo”, a vantaggio dell’interesse pubblico e, quindi, della P.A., dando anche consigli sgraditi a chi, come gli amministratori pubblici, spesso si “innamorano” dei loro atti.
Questa si chiama “lealtà”, che è la “stella polare” cui devono ispirarsi i nostri comportamenti: dobbiamo, noi avvocati tutti, essere “buoni cittadini” prima di tutto, perché cittadini lo siamo comunque, prima di qualsiasi attività.
Solo dopo è più facile essere “buoni professionisti”.
Perché spesso per noi essere “bravi giuristi” non basta, ma dobbiamo cercare di far sì che la P.A. non cada in insidie che vadano a vantaggio di interessi immeritevoli, creando problemi al nostro “cliente”. E se il nostro cliente ha problemi, ricadranno su di noi.
In questo “ruolo” è indispensabile l’Avvocatura pubblica, ma lo è se è disciplinata, regolata, scelta, onesta. E questo deve essere interesse di tutti i cittadini, poichè da tutti noi e voi siamo retribuiti e posti a presidio di quella legalità che non è contenuta nel Codice deontologico, ma nella funzione pubblica che l’avvocato dipendente svolge. È peró per l'Avvocatura pubblica una regola consuetudinaria, non scritta, che resta ascritta alle singole coscienze, a differenza della più fortunata Avvocatura dello Stato!
Allora il problema è l’anomia che ci riguarda, ed è qui che la politica si “incontra” con l’avvocatura, ed è qui che il momento di crisi emergenziale deve servire a cogliere l’opportunità di osare. Perché anche la “politica” è rivolta al benessere della collettività , anche la politica deve la sua sopravvivenza al ritrovare regole giuridiche e morali, a perseguire il rigore economico che può derivare dal consentire che la difesa della “cosa pubblica” non sia merce di scambio, ma avvenga nel rispetto di “regole” per l’appunto “giuridiche e morali”.
Oggi ci sono soltanto “buoni cittadini” che fanno del loro lavoro per la P.A. un “impegno giuridico e morale”.
Domani speriamo ci siano anche le regole!
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