La proposta Lo Presti: unificare in un solo ente la miriade di avvocature che difendono il "pubblico"
Ordini professionali, che fare? Sorprendono le motivazioni addotte a sostegno dell'avversione per gli Ordini, così come vederne i teorici, per lo più editorialisti che si ergono a censori o, addirittura, detrattori, definendo "parassiti” i gruppi di professionisti i cui “privilegi” frenerebbero lo sviluppo, bloccherebbero la crescita, l'innovazione e la ricerca. Quali privilegi non si sa, anzi, l’on. Nino Lo Presti, esperto indiscusso di professioni, ha avuto modo di recente di precisare che «l’avvocatura non è categoria di privilegiati, i redditi sono in calo e il futuro sempre più incerto» per i numerosi iscritti under 50, che non riescono a raggiungere livelli minimi di dignità, dato che l’ordine forense non è contingentato, e dunque non può essere ritenuto una casta. V’è poi da dire che in tutti i paesi dell'Europa esiste l’Ordine degli avvocati compreso il Regno Unito, cui si vorrebbe far riferimento per la costituzione di società di capitali tra professionisti e non professionisti. Anzi, la peculiarità dell’Inghilterra e dei paesi anglosassoni, a ben vedere ci somiglia. Infatti, tali società possono esistere solo per la tipologia dei numerosi "solicitors", ovvero coloro che non possono difendere in udienza (se non nei tribunali minori, come avviene per i giudici di pace, in cui la parte può stare personalmente), bensì esercitare come agenti immobiliari o notai. E' invece preclusa ai pochi "barristers", gli avvocati veri e propri, gli unici a poter svolgere attività di difesa nelle varie Corti.
Ciò in cui deteniamo un primato europeo è che siamo gli unici ad avere una legge professionale ferma al 1933. 240.000 avvocati sono troppi, è vero, ma non diminuirebbero abolendo gli Ordini o gli esami d’accesso. Bisogna invece guardare alle vere sacche di privilegio entro le professioni, partendo a monte del problema, in due direzioni.
La prima, incentrata sui giovani: dall'Università, che si è ridotta a raccoglitore raccogliticcio di tutti coloro che non superano i tests delle facoltà a numero chiuso; al tirocinio, da rendere senz’altro più breve, ma più serio e più formativo, pagandolo, non abolendolo, motivando i giovani colleghi, non illudendoli. Quale futuro potrebbero avere giovani avvocati che speravano di superare i test di medicina o di architettura, e sono invece catapultati nella professione in quantità industriali? E dalla concorrenza con masse di avvocati, quali sbocchi economici il nostro giovane potrebbe mai raggiungere? E quale motivazione, in tali scenari, potrebbe mai trarre? Economica? Passione?
La seconda direzione dovrebbe riguardare l’eliminazione degli extra moenia: l’avvocato deve svolgere la sua professione a tempo pieno, da libero professionista o da dipendente. L’impressione è che, come spesso accade, piuttosto che riformare, si tenda a fare piccoli aggiustamenti e grandi proclami sul cambiare tutto perché non cambi niente.
Fatte queste premesse, occorre allargare la visuale e sgombrare il campo dagli inutili pregiudizi. Nell’enorme esercito degli avvocati italiani, vi è un drappello di opliti, gli avvocati dipendenti di enti pubblici, che costituisce un blocco “male equipaggiato” sul piano normativo, ma coraggioso e scelto, che quotidianamente lavora con passione perché la legalità dell’agire amministrativo prevalga, nell’interesse non solo del proprio cliente (ente pubblico), ma in quello superiore che è l’interesse pubblico.
Rammento che, al riguardo l’on. Nino Lo Presti, ha recentemente sostenuto che «per gli avvocati degli enti pubblici, l’impegno del Parlamento è quello di definirne una volta per tutte, nell’ambito della riforma della professione forense, il ruolo, l’autonomia e il trattamento, dovendosi salvaguardare, infatti, l’imprescindibile e preziosa funzione che gli avvocati pubblici svolgono a presidio della legalità nell’interesse sia delle pubbliche amministrazioni, sia dei cittadini che entrano in contatto con esse». Infatti, grazie a Lo Presti, la "riforma" giacente alla Camera contiene per la prima volta una norma specifica dedicata agli avvocati degli enti pubblici, l'art. 22.
E proprio nell’ottica del contenimento dei costi, preme sottolineare come le avvocature pubbliche costituiscano una fonte di ampi risparmi di denaro pubblico. Il particolare, oggi non va certo sottovalutato. Anzi, andrebbe coltivato e approfondito. Lo Presti anche in un recente Convegno sulla Pubblica Avvocatura svoltosi a Palermo, ha avuto modo di approfondire il tema. La necessità di dotarsi in Italia delle avvocature si inserisce nel momento storico successivo ai moti risorgimentali ed alla nascita del Regno d'Italia, e ciò sia per l'Avvocatura dello Stato, fondata nel 1876 con la denominazione di Regia Avvocatura Erariale, che per Avvocature municipali come Bologna, Roma e Napoli. In contemporanea con la disciplina della professione forense, nel 1933, appunto, l'Avvocatura erariale ha ricevuto la propria disciplina di ruolo, funzioni e struttura, mentre le altre avvocatura erariali locali non hanno ricevuto alcuna disciplina, restando ascritte a quel particolare interspazio esistente fra l'Avvocatura e il libero Foro, chiamato “eccezione all’incompatibilità”...
Eppure l'esigenza era quella, identica, di creare figure professionali esperte e settorializzate, dedicate alla conoscenza costante delle nuove tipologie di contenzioso nascenti dall’intensificazione legislativa. E qui il ragionamento dell’on. Nino Lo Presti: che senso ha avere tante avvocature erariali (parastato, regioni, enti locali, università, ex municipalizzate, società interamente pubbliche, stato)?. Forse, proprio prendendo le mosse dall'emergenza economica che stiamo vivendo, si potrebbe creare un mutamento sostanziale di direzione: a fianco dell'Avvocatura dello Stato potrebbe sorgere l'Avvocatura degli enti diversi dallo Stato, con la previsione anche per esse del foro erariale. La struttura, infatti, potrebbe anticipare e, in qualche modo, intersecarsi con la riforma che vuole la soppressione delle Province, creando "avvocature distrettuali" per sedi di Corte d'Appello ed "avvocatura generale" a Roma presso l'Avvocatura di Roma capitale.
La contrazione di costi sarebbe enorme: all'Avvocatura generale spetterebbe la rappresentanza e difesa delle amministrazioni pubbliche nei giudizi davanti alla Corte costituzionale, alla Corte di Cassazione, al Tribunale superiore delle acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni, anche amministrative, ed ai collegi arbitrali con sede in Roma, nonché nei procedimenti innanzi a collegi internazionali o comunitari; mentre alle avvocature distrettuali spetterebbe la rappresentanza e difesa in giudizio delle amministrazioni nelle rispettive circoscrizioni.
Le funzioni resterebbero le stesse: contenziosa e consultiva, entrambe, negli ultimi decenni, sviluppate secondo un trend di crescita quantitativamente e quantitativamente esponenziale.
Le condizioni contrattuali e giuridiche rimarrebbero invariate, collocando gli avvocati in un’area di contrattazione separata ma in fasce corrispondenti a quelle rivestite. Il tutto, quindi, a costo zero e ampia resa, poiché vi sarebbero ingenti risparmi in costose consulenze assorbite secondo il meccanismo dell’in house.
Nessun commento:
Posta un commento