Sin dalla mitologia greca il tema della “doppiezza” costituisce un emblema etimologicamente e figurativamente straordinario.
Un essere mezzo uomo e mezzo animale riconduce ad una idea di soprannaturale che, per dimensioni e aspetto, appare assolutamente inconsueto, nel positivo e nel negativo, originando il concetto di hybrida, ovvero di incrocio tra generi, condizioni sociali diverse, storie, ecc., per il quale prevale spesso l’immaginario più del cognito.
Prevale, infatti, più l’immaginario che ciò che realmente si dovrebbe approfondire e conoscere, con riguardo alla particolare posizione dell’avvocato degli enti pubblici, monstrum dal doppio status, mezzo uomo e mezzo animale: un po’ avvocato e totalmente dipendente per il proprio datore di lavoro, un po’ dipendente e totalmente avvocato per il Consiglio nazionale forense, che considera tali professionisti una figura anomala solo quanto al pubblico impiego, anomalia che non esiste per quanto concerne l’avvocatura.
Figure anomale, dunque, come la progenie di Echidna, mostruosa donna con la parte inferiore del corpo serpentiforme, o la Sfinge, volto di donna o di uomo su corpo di leone, o i Satiri, dal volto umano e orecchie, corna, coda e zampe caprine, o le Sirene, figure ibride con la parte superiore umana e quella inferiore di pesce, o il Minotauro, dalla testa di toro su corpo di uomo.
Questi ed altri gli esempi che si potrebbero riportare sull’esistenza del “bivio” dovuto alle antinomie da anomia.
Lo stesso divario tra antinomie che avvertiva l’uomo dell’antichità quando si trovava al “bivio della scelta”, lo avvertono oggi sia coloro che sono chiamati ad operare nell’ambito professionale dipendente, che coloro che sono chiamati a dirimere del rapporto lavorativo e/o forense, nella totale latitanza del legislatore.
Proprio questo insieme di considerazioni porta alla conseguenza che, laddove il legislatore abdica al proprio ruolo, il giudice espande la propria competenza e genera “diritto”.
E’ questo il caso “normale” per gli avvocati degli enti pubblici, i quali -non potendo beneficiare di una chiara e limpida normativa che ne disciplini l’ordinamento, così come avviene per la sola Avvocatura dello Stato- devono la loro “regolamentazione” all’elaborazione giurisprudenziale, la quale ha oramai creato una disciplina curiale molto ben precisa in ordine alla “particolare” posizione degli avvocati degli enti pubblici diversi dallo Stato.
In questo “solco” si saluta con ritrovato entusiasmo la sentenza del Consiglio di Stato del 14 febbraio 2012, n. 730, nel cui giudizio l’Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici, è intervenuta a sostenere le ragioni di un collega avvocato pubblico nei confronti del proprio ente, in ciò marciando “a braccetto” con il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Salerno.
Il caso prendeva origine dal provvedimento (di macro organizzazione) con il quale l’Ente datore di lavoro aveva posto in essere la riorganizzazione dell’Ufficio legale a cui era preposto l’avvocato dell’Ente, ponendo in essere atti ritenuti dallo stesso e dal giudice amministrativo in primo grado, lesivi sia delle funzioni dell’Avvocatura che di quelle del suo dirigente.
La pronuncia del massimo Organo della Giustizia amministrativa offre spunto per riflettere e fissare alcuni “paletti” sugli avvocati degli enti pubblici, in attesa di verificare quale esito abbia l’attività legislativa attualmente “cantierizzata” (ddl di riforma forense attualmente ripreso in Commissione Giustizia alla Camera e già approvato in via definitiva al Senato; decreto sulle liberalizzazioni, d’imminente voto al Senato).
Questione di giurisdizione. Il tema ha visto più volte la giurisprudenza amministrativa chiamata a risolvere i problemi che la riforma sul pubblico impiego ha apportato, soprattutto sotto il profilo dell’individuazione della giurisdizione in conseguenza della c.d. “privatizzazione” del pubblico impiego.
La giurisprudenza amministrativa generalmente distingue, ai fini del riparto di giurisdizione, le controversie relative a rapporto di lavoro in atto e controversie relative all’attivita’ procedurale amministrativa finalizzata all’instaurazione dei rapporti stessi. Le prime sarebbero devolute, giusta l’applicazione dell’art. 68 comma 1 del dlg n. 29 del 1993, all’autorita’ giurisdizionale ordinaria, mentre le seconde sarebbero devolute all’autorita’ giurisdizionale amministrativa.
Da tale distinzione si prende le mosse per poi operarne una ulteriore che arriva ancor piu’ al centro del problema allorche’ il Consiglio chiarisce che il criterio di riparto della giurisdizione e’ dato dalla nascita del rapporto rispetto al quale la stipula del relativo contratto assume valore costitutivo. Ed infatti la distinzione viene poi ravvisata tra aspetto organizzativo e aspetto gestionale del rapporto.
Orbene, per esaminare questo orientamento giurisdizionale, occorre evidenziare che la normativa in materia e’ stata ulteriormente perfezionata dal d.lgs. 30.3.2001 n. 165 intitolato “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche” che ha apportato modifiche al precedente impianto originario costituito dal dlgs n. 29/1993, dal dlgs n. 546/1993, dal dlgs n. 80 del 1998 e dal dlgs n. 387/98
Cosicche’ si puo’ affermare che il rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici e’ oggi contrattualizzato e privatizzato, ma viene prestato in una organizzazione datoriale che e’ e resta pubblica. La riforma e’ basata sulla distinzione tra “attivita’ di organizzazione degli uffici” ( c.d. macro-organizzazione)di carattere pubblico e sottoposta a regime pubblicistico e “ attivita’ operativa e di gestione del personale” ( c.d. micro-organizzazione”) di natura privatistica e soggetta alla regole civilistiche(3)
Orbene, questa distinzione si pone senz’altro in linea con la pronunce del Consiglio di Stato in materia, laddove si rileva, correttamente, la distinzione tra aspetto organizzativo e gestionale del rapporto. La pronuncia, tuttavia, non affronta il tema, nel tener conto della domanda proposta con il ricorso, dei limiti dell’aspetto organizzativo.
In sostanza, ci si chiede quali sono gli indici rivelatori dei due aspetti in cui si concretizza il rapporto di pubblico impiego ed in particolare come e dove possa confinarsi l’aspetto organizzativo del rapporto.
Per vero, da tali pronunce emergerebbe che il momento della nascita del rapporto rispetto al quale la stipula del relativo contratto assume valore costitutivo, potrebbe segnare lo spartiacque tra i due aspetti sopra considerati e di conseguenza tra le due giurisdizioni concorrenti.
Cosicche’ dal momento della stipula del contratto si potrebbe parlare di inizio dell’aspetto privatistico del rapporto, con conseguente giurisdizione del g.o., mentre per la fase precedente si potrebbe parlare di aspetto ancora pubblicistico del rapporto, con conseguente giurisdizione del g.a.
Ma se questo e’ vero, occorre tuttavia considerare che l’attivita’ di organizzazione degli uffici che, come abbiamo visto il dlgs n. 165/2001 attribuisce al giudice amministrativo, ben puo’ intervenire dopo la instaurazione del rapporto contrattuale. Pertanto, il profilo temporale se puo’ essere utilizzato per stabilire la linea di confine tra attivita’ precontrattuale e attivita’ contrattuale, non e’ onnicomprensivo se lo si adopera per la distinzione tra aspetto organizzativo e aspetto gestionale del rapporto. Ancorche’ le due categorie appaiano schematicamente solide, l’individuazione degli atti di natura organizzativa non rimane di facile classificazione.
Come distinguere infatti gli atti di c.d. macro-organizzazione, devoluti al g.a., dagli atti di micro-organizzazione, devoluti al g.o. ?(4)
In ossequio al dlgs n. 165/2001, si puo’ affermare che per attivita’ di macro-organizzazione dovrebbero intendersi la determinazione delle strutture generali degli uffici e degli apparati; al contrario per attivita’ di micro-organizzazione dovrebbero intendersi le misure organizzative operative , oltre che quelle gestionali, che sono assunte dagli organi preposti con la capacita’ ed i poteri del privato datore di lavoro( art. 4, c.2 dlgs n. 165/2001).
Ma le perplessita’ sorgono allorche’ si cerca di individuare con chiarezza l’ambito di operativita’ degli atti di micro-organizzazione, in quanto sembrerebbe che si possa individuare un’area in cui si rinvengono degli atti che non essendo di gestione investono comunque l’aspetto organizzativo ovvero che pur essendo di gestione investono comunque l’aspetto organizzativo e non possono essere qualificati di micro-organizzazione o che in ogni caso, non possono essere considerati solo atti di micro-organizzazione(5)
In effetti, l’art. 5 del dlgs 30.3.2001 n. 165 afferma che” Le amministrazioni pubbliche assumono ogni determinazione organizzativa al fine di assicurare l’attuazione dei principi di cui all’articolo 2,comma 1, e la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa”. Con tale disposizione, quindi, sembrerebbe che il legislatore abbia voluto assicurare la materia organizzativa non soltanto alla disciplina privatistica, riservando un’area di soggezione ai principi amministrativi della rispondenza al pubblico interesse. Ed in effetti, appare arduo individuare atti organizzativi non consistenti nella mera adozione di misure gestionali, che siano sottratti alla sfera pubblicistica. (6)
Infatti, se l’intero campo dell’attivita’ organizzativa del pubblico impiego privatizzato fosse stato lasciato alla regolamentazione privata, il legislatore non avrebbe utilizzato, nel predetto art. 5, il concetto di determinazione organizzativa in riferimento al perseguimento del pubblico interesse.
Inoltre, tali argomentazioni sono rafforzate dalla Costituzione, art. 97 Cost. in primis, (7) ,che sancisce il principio di correttezza ed imparzialita’ dell’azione amministrativa ma soprattutto dalla normativa sulla privatizzazione del pubblico impiego( come l’art. 19, co. 3,4 e 5 dlgs n. 29 del 1993) che utilizza ancora la nozione di atti amministrativi(8)
D’altronde, su tale aspetto si e’ pronunciato il Consiglio di Stato ( 10.6.1999 n. 9, Foro Amm., 1999, 2166) In tale pronuncia il Consiglio ha rilevato che nell’espressione atto amministrativo devono ricomprendersi anche atti soggettivamente amministrativi provenienti dalla p.a. adottati in regime privatistico. Come gli atti organizzativi e gli atti concernenti la gestione del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici “privatizzati” che siano espressione di funzioni di rilievo pubblicistico. Il Consiglio di Stato, di conseguenza, ha ritenuto che avverso tali atti e’ esperibile il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica.(9)
Ma se allora esistono atti gestionali riguardanti i dipendenti pubblici privatizzati che, pur adottati in regime privatistico sono espressione di funzioni di rilevo pubblicistico(10) , allora la distinzione tra atti di gestione e atti di organizzazione non e’ poi cosi’ tanto solida, perche’ e’ difficile, se non impossibile , per l’amministrazione, adottare solo atti di mera gestione senza esprimere al contempo atti che siano espressione di funzioni di rilievo pubblicistico. Lo stesso discorso puo’ farsi in relazione agli atti di micro-organizzazione.
Queste riflessioni, non incidono sulla sussistenza di una distinzione riscontrata dalla giurisprudenza su atti di gestione e atti di organizzazione e anche su quella tra atti di micro e atti di macro organizzazione, perche’ le categorie appaiono individuabili utilizzando criteri logico-giuridici adeguati e risultano giustificate dalle scelte del legislatore. Quello che invece appare non solida e’ la individuazione della linea di distinzione che si rinviene tra atti di gestione e atti di organizzazione e tra atti di micro e di macro-organizzazione, anche perche’ il legislatore non l’ha fornita.
Dalle considerazioni sopra esposte che tengono conto obiettivamente del dato normativo emerge che gli atti di gestione, ovvero gli atti di micro-organizzazione derivano pur sempre da atti di organizzazione ovvero da atti di macro organizzazione.
E gli atti di organizzazione ovvero di macro-organizzazione comunque riverberano degli effetti sui singoli rapporti di lavoro, retti dal diritto privato. (11)
Tali effetti riguardano sia i provvedimenti generali di auto-organizzazione, sia i provvedimenti specifici di gestione del rapporto come quelli che attengono alla definizione della pianta organica, ed inoltre quelli che concernono le procedure di mobilita’(12)
Nell’esempio del dipendente trasferito a seguito di provvedimento organizzativo - cioe’ di provvedimento di macro-organizzazione - emerge chiaramente che gli effetti di quest’ultimo si producono sul dipendente che deve abbandonare il posto che non esiste piu’ per essere trasferito ad un altro con un provvedimento gestionale - cioe’ con un provvedimento di micro-organizzazione -
D’altronde, il legislatore ha potuto privatizzare il rapporto di lavoro ma non il potere organizzatorio in cui quel rapporto si inserisce, tanto che la dottrina ha espresso il concetto di privatizzazione a meta’(13)
Ed in effetti, quando l’art. 5, 1 comma, del dlgs n. 165/2001 parla di determinazione organizzativa che deve rispondere “al pubblico interesse, deve essere intesa l’organizzazione in via generale; quando l’art. 5, 2 comma, dello stesso, parla di determinazioni per l’organizzazione degli uffici assunte con “ la capacita’ e i poteri del privato datore di lavoro” il potere organizzatorio risulta non completamente privatizzato , ma anche privatizzato, anzi piu’ precisamente privatizzato nei suoi aspetti esclusivamente particolari(14)
La Corte costituzionale ha ragionato al riguardo, precisando che il rapporto di lavoro con i dipendenti viene attratto dal diritto privato per tutti quei profili che non sono connessi al momento esclusivamente pubblico dell’azione amministrativa ( Corte Costituzionale, 16.10.1997 n. 309, in Foro It., 1997, 3484)
Quindi, questo vuol dire che ci sono di profili non connessi a tale momento in cui il rapporto con i dipendenti viene attratto dal diritto amministrativo. Tale argomento, non puo’ non scompaginare anche la distinzione tra elemento organizzativo ed elemento gestionale del rapporto: quantomento riporta la distinzione in un terreno in cui una precisa e netta individuazione delle categorie non appare corretta. (15)
B) La natura dell’azione amministrativa della p.a sul piano fattuale e sul piano giuridico
Alla raccolta delle riflessioni, non si puo’ non notare che le categorie sopra menzionate sono oggetto di una distinzione effettivamente comprovante le scelte del legislatore e che tali distinzioni devono essere utilizzate per meglio schematizzare la materia cosi’ creata dal legislatore, ma non tollerano di essere confinate in ambiti precisi, poiche’ esistera’ un legame tra atti di organizzazione e atti di gestione ovvero tra atti di macro e atti di micro organizzazione. Questo legame deve essere ricondotto alla sussistenza nel pubblico impiego, quantunque privatizzato, di un elemento amministrativo di natura pubblica che non potra’ mai essere eliminato.
Tale natura amministrativa dell’azione della p.a. non e’ frutto di una scelta giuridica del legislatore, esso e’ una realta’ di fatto prima che giuridica e si afferma materialmente indipendentemente dal rivestimento che il diritto le attribuisce.(16)
La natura dell’azione della p.a. e’ amministrativa non perche’ e’ ricavata dalla natura del potere(17) ma perche’ l’azione per raggiungere i risultati voluti dalla Costituzione deve sposare principi e tematiche del diritto amministrativo le cui nozioni si occupano dei criteri per la realizzazione del pubblico interesse che il diritto privato non alberga.
Su di un piano inferiore e’ per di piu’ difficile che tale realta’ sia comunque alterata anche giuridicamente. Perche’ la sostanza pubblica dell’operare della p.a. nel pubblico impiego, anche privatizzato e’, oltre che un fatto, anche una realta’ giuridica che trae ragione dalla qualificazione della natura pubblica degli interessi che vi sono implicati, dai connessi poteri dell’ente pubblico datore di lavoro e dalle stesse strutture in cui sono inseriti. (18)
L’incidenza del diritto pubblico su quello privato e’ evidente nella materia dei contratti collettivi in quanto il dlgs n. 29 / 1993 prevede procedimenti amministrativi paralleli e rilevanti momenti di discrezionalita’ amministrativa in varie fasi dell’attivita’ contrattuale collettiva(19)
La p.a. deve rispettare il principio, che la stessa normativa sulla privatizzazione del pubblico impiego sancisce ( art. 5 dlg n. 165/2001) che le amministrazioni pubbliche devono assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa. Pertanto molti atti di gestione del rapporto con il dipendente privatizzato sono condizionati da atti di organizzazione di natura amministrativa e non sopportano, a meno che non si vuole alterare una realta’ di fatto tramite una realta’ giuridica sovrapposta.
Tutto cio’ soprattutto nel rispetto delle scelte del legislatore, che ha voluto la privatizzazione del rapporto di lavoro ma non del potere organizzatorio in cui quel rapporto si inserisce e pertanto tale sistema deve essere rispettato
C) Il buco nero della privatizzazione:la tutela giuridica dei dipendenti dinanzi agli atti della p.a.
Attualmente, da una parte il panorama giuridico che si trova davanti appare rivolto verso una privatizzazione forzata di tutte le attivita’ organizzative della p.a. Tale posizione concettuale guarda con disagio che si possa disturbare il sinallagma contrattuale tramite contaminazioni amministrativistiche, senza accorgersi che questo elemento proviene dalla materia in se’ e non da posizioni ideologiche. Quale operatore del diritto non sentira’ dentro di se’ l’impulso a far verificare ad un giudice la legittimita’ di un atto ( organizzativo in senso generale e quindi amministrativo) della p.a. che e’ alla base del comportamento contrattuale che ha recato danno al dipendente ? Invero, coloro i quali ravvisano gli aspetti amministrativi nel p.i. privatizzato non sono dei sognatori di un mondo che non esiste piu’ ma gli unici percettori di qualcosa che gli altri hanno pensato che si possa del tutto eliminare. Fin qui poco male.
Dall’altra parte, infatti, si assiste ad una progressiva diminuzione di tutela giudiziaria ai danni del lavoratore privatizzato. Questa riduzione di tutela si e’ riscontrata principalmente sul piano della pratica giudiziaria, ancorche’ teoricamente il sistema consentirebbe una astratta tutelabilita’. Sul piano pratico la possibilita’ di ottenere giustizia si e’ molto ridotta rispetto al precedente sistema prima della privatizzazione. Dinanzi al g.o. il dipendente non puo’ ottenere l’annullamento di un provvedimento organizzativo o gestionale che sia , men che meno un provvedimento incidentale di sospensione(20) ma solo la disapplicazione dello stesso e il risarcimento dei danni. Il dipendente, cosi’ perde la possibilita’ di appropriarsi dell’integrale soddisfacimento delle proprie pretese in forma specifica.(21)
Gli effetti della disapplicazione sono limitati e comunque, il provvedimento disapplicato dal g.o. conserva piena efficacia giuridica e la p.a. non ha alcun obbligo di annullarlo(22)
Parimenti, il dipendente che va dinanzi al g.a. si deve scontrare con i problemi relativi ai termini entro i quali proporre l’azione e con quelli relativi al difetto di giurisdizione. Senza considerare, che in tal maniera, si impedisce una tutela piena rispetto ad atti di organizzazione della p.a, che si trova, in un certo qual modo, ad aver campo libero nella propria azione senza - quasi - correre il rischio che si possa mettere in discussione il proprio operato dinanzi ad un giudice. (23)
E di fatto, l’effetto della privatizzazione del p.i. sta causando in primis proprio questo: un sostanziale polverizzazione della possibilita’ del dipendente di sindacare gli atti della p.a., perche’ gli atti organizzativi sono difficili da individuare e ancor piu’ da contestare con dei motivi da ricorso. Non e’ un fatto da nulla, anzi e’ un indice basilare per poter riscontrare il grado di evoluzione dei rapporti tra Stato e cittadino. Non bisogna dimenticare, infatti, che, il dipendente esercita una tutela contro i provvedimenti della p.a. della quale beneficia tutta la collettivita’. Soltanto tramite il dipendente, che si trova in quella posizione di interesse legittimo particolare, la tutela nei confronti degli atti della p.a e’ esperibile pienamente e questa tutela a monte, consente, tramite il g.a., una difesa rispetto all’operato della p.a. che non e’ possibile quando e’ richiesta, a valle, tramite il g.o.. Le figure tradizionali della violazione di legge, dell’eccesso di potere, dell’incompetenza rappresentano un mezzo per poter verificare fino dentro al potere decisivo della p.a. la rispondenza al pubblico interesse dell’atto stesso a beneficio dell’intera collettivita’. Questa area di operativita’ non e’ recuperabile dinanzi al g.o., tramite i requisiti della correttezza e della efficienza, poiche’ questi ultimi vengono riscontrati in capo ad soggetto pubblico privatizzato rispetto al quale mancano gli strumenti giuridici per poter verificare fin dentro le volonta’ realizzativa dell’ente se l’atto e’ rivolto effettivamente al pubblico interesse.
E quanto all’utilizzazione della disapplicazione, non provoca effetti nei confronti della p.a., che puo’ non tenerne conto ampliamente: cosicche’ l’attivita’ di tutela giuridizionale verso gli atti della p.a. risulta quasi insussistente, con vanificazione dell’art. 113 della Costituzione.
La p.a. viene privata di poteri pubblici esercitati attraverso atti autoritativi e pertanto se e’ vero che il privato potra’ esercitare l’intero ventaglio delle tutele offerte nell’impiego privato, e’ anche vero che l’atto , il provvedimento amministrativo, non sara’ comunque direttamente impugnabile come prima , perche’ quello che si impugna non e’ l’atto organizzativo che incide sulla gestione del rapporto, come si faceva un tempo. Davanti al g.a. si impugna l’atto di macro-organizzazione discinto dai provvedimenti pregiudizievoli successivi e davanti al g.o. si propone una domanda per ottenere un diritto che e’ in riferimento a un atto pregiudizievole ma senza che si possa entrare nel merito di questo atto di macro-organizzazione, che si puo’ solo disapplicare. Questo sdoppiamento di giurisdizione travolge l’unitarieta’ dell’azione amministrativa che per quanto variegata non e’ riconducibile a segmenti autonomi; cosicche’ travolge anche il principio stabilito dall’art. 113 Cost. poiche’ al contempo non consente di sindacare pienamente in sede giurisdizionale l’operato della p.a. e di esercitare una tutela piena dei diritti e degli interessi legittimi del dipendente della p.a. oggetto del provvedimento. Eppure l’art. 113., II co Cost. stabilisce che la tutela giurisdizionale non puo’ essere esclusa o limitata a particolari mezzi di impugnazione o per determinate categorie di atti, che e’ quello che avviene a seguito della privatizzazione. In effetti, se per individuare il potere organizzativo di diritto privato della p.a. e’ necessario ricorrere ai vincoli di scopo dell’attivita’ organizzativa colta nel suo insieme e non nei singoli atti(24), occorre rilevare che l’art. 113 Cost. non prevede l’impugnazione dell’attivita’ organizzativa colta nel suo insieme, anche se vi sono aree dell’impugnazione giurisdizionale amministrativama che la riguardano , ma soprattutto quella esercitata tramite l’unico mezzo possibile: i singoli atti. La tutela che ne consegue, non puo’ non riguardare dunque che i singoli atti; l’attivita’ organizzativa nel suo insieme non esiste nella realta’ giuridica, come non esiste nella realta’ giuridica un pubblico impiego che possa prescindere dal connotato amministrativo. Il vincolo di scopo, se poi puo’ trovare conclusione nel momento della valutazione delle responsabilita’ dei dirigenti (25) esprime una autonomia sia dall’amministrazione che dal soggetto dipendente che subisce i provvedimenti gestionali con conseguente inapplicazione della tutela giurisdizionale del dipendente. La valutazione dei risultati, in ogni caso, agisce su effetti dell’attivita’, non sugli atti e quindi direttamente sull’attivita’: l’atto intanto puo’ essere emesso e quando il risultato si valuta e’ troppo tardi per poter intervenire giurisdizionalmente in tempo utile per arginarne l’illegittimita’. Inoltre, l’atto puo’ essere illegittimo nei confronti di un dipendente pur facendo riscontrare un risultato di gestione positivo. In realta’ il dipendente ha necessita’ di conseguire lo stesso livello di tutela che gli garantiva il precedente regime, perche’ non e’ in una posizione di parita’ formale con il datore che puo’ emettere a monte del rapporto atti organizzativi al di fuori dell’aspetto gestionale(26)
Ed ancor prima non e’ neppure facile che il g.a. riconosca un atto come atto di macro-organizzazione,(27) e anche se succede non e’ tanto facile che possa essere annullato, poiche’ nei riguardi di esso l’individuazione dei vizi di illegittimita’ e’ piu’ circoscritta e complessa rispetto a quanto era proponibile nel vecchio regime dove operava soltanto il g.a.
E’ evidente che un piu’ obiettiva ponderazione della oggettiva situazione della p.a. nel pubblico impiego privatizzato, dovrebbe far discendere una non rigida distinzione tra atti di organizzazione e atti di gestione ovvero tra atti di micro e atti di macro-organizzazione dalla quale possa emergere l’individuazione certa di un atto organizzativo o di un atto di gestione. Da qui deve ritenersi un ampliamento dell’area di riconduzione al diritto amministrativo della attivita’ organizzativa.(28)
Cosi’ si consentirebbe al dipendente di impugnare, senza preclusioni giuridiche, l’atto organizzativo dinanzi al g.a. e l’atto gestionale dinanzi al g.o., godendo in entrambi i casi di una tutela giuridica piena, ancorche’ assoggettata al riparto.
Eppure questo sistema, che pure discende dalla normativa della privatizzazione non sarebbe costituirebbe un fatto nuovo: la giurisprudenza lo ha applicato lungamente in materia di controversie di enti pubblici economici: all’epoca, si riteneva appartenente alla giurisdizione del g.a., la controversia promossa dal dipendente per denunciare il provvedimento - per restare nel precedente esempio del trasferimento - di chiusura di un determinato ufficio, perche’ l’atto era posto in essere dall’ente nell’esercizio pubblicistico dei suoi poteri pubblicistici di autorganizzazione; mentre si reputava appartenente al g.o. quello promosso tramite la domanda inerente al rapporto privatistico di lavoro(29)
Ma in ogni caso quella disciplina riguardava solo alcuni enti, non la ,p.a. come tale, in riferimento a provvedimenti rispetto ai quali , oggi, di fatto, la tutela giurisdizionale amministrativa e’ quasi insussistente. Il Consiglio di Stato riteneva che rientrassero nella giurisdizione del giudice amministrativo gli atti con i quali l’ente pubblico economico “ provvedeva alla propria organizzazione, sia nel caso di istituire, modificare o sopprimere uffici, che nel caso di dare un nuovo assetto agli organici ed a compiti istituzionali”( C. St., VI, 27.4.1979 N. 314)
Oggi, basterebbe utilizzare quegli equilibrati principi di differenziazione per affrontare in senso piu’ saggio il problema: eppure nonostante quella disciplina riguardasse solo alcuni enti, non l’intera p.a. come tale, la tutela giurisdizionale amministrativa era effettiva nella propria sfera : oggi e’ ristrettissima e scollegata rispetto agli effetti che l’atto comunque provoca nei confronti del dipendente. Senza considerare, poi,le continue modifiche di posizione della giurisprudenza civile e amministrativa che, tenuto conto di una normativa impostata male, continua a rimanere incerta a piu’ di dieci anni dalla privatizzazione. Fatto sta che per cittadino -dipendente della p.a, questa diminuzione notevole della tutela rimane un fatto piu’ inspiegabile ed incomprensibile che ingiusto.
Su questo profilo, che poi e’ il piu’ importante poiche’ investe i rapporti tra Stato e cittadino, la riforma tramite la privatizzazione del pubblico impiego e’ miseramente fallita.
Quando gli effetti incidono, cosi’ negativamente, sulla possibilita’ di tutela del dipendente pubblico nel pubblico impiego privatizzato, e poco importa che sia piu’ giusto definirlo soltanto contrattualizzato, riducendo notevolmente la sua possibilita’ di far valere davanti a un giudice i propri diritti, fatto questo che non succedeva prima della privatizzazione, nonche’ sulla effettiva possibilita’ di sindacare l’operato della p.a. nei provvedimenti organizzativi, la contrapposizione tra “visione pubblica” o “visione privata” della pubblica amministrazione, appare sterile.
Non c’e niente di male a privatizzare il pubblico impiego. Non c’e niente di male a ritenere che il perseguimento dei fini pubblici possa essere operato tramite attivita’ di diritto privato. A patto che la privatizzazione non incida sulla sindacabilita’ degli atti amministrativi presupposti. A patto che il sistema consenta da una parte, una effettiva tutela del dipendente dinanzi a qualsivoglia giudice, ovvero questa tutela sia coordinata e armonica e non comporti l’obbligo di essere spesso duplice(30) ma inefficace; dall’altra, la possibilita’ di sindacare effettivamente sull’operato della p.a. con i tradizionali mezzi che la giurisdizione amministrativa ha enucleato tramite soprattutto la figura dell’eccesso di potere.(31)
Occorre, in sostanza, che gli art. 24 e 97 e 113 siano effettivamente applicati in favore della tutela dei dipendenti.
I problemi della privatizzazione dell’impiego pubblico non si risolvono accorpando le categorie della discrezionalita’ e del vincolo di scopo dentro il diritto del lavoro (32) ma riconoscendo che l’elemento pubblico non puo’ essere completamente eliminato nel pubblico impiego privatizzato per paura di contaminare il lavoro subordinato; occorre stabilire un rapporto equo tra l’elemento pubblico e quello privato sia pur prevalente, ma mentre il primo rimane comunque il sostrato dell’attivita’ della p.a.. Occorrera’ enucleare una combinazione di misure organizzative e gestionali, da tradurre in atti pubblicistici e privatistici concorrenti e coordinati (33)
E non aiuta, sulla base di un applicazione impropria del principio del bilanciamento delle norme costituzionali, collocare il principio lavoristico sopra i principi dell’organizzazione amministrativa(34), perche’ il problema non e’ di prevalenza di principi, ma di armonizzazione degli stessi in un contesto giuridico che lo richiede. Comunque, se il principio lavoristico e’ cosi’ importante, perche’ nella pratica giudiziaria il suo aspetto forse piu’ importante, quello della tutela del lavoratore dipendente, passa, invece, in questa riforma, in secondo se non in terzo ordine ?
In questo rapporto armonico, il dipendente pubblico privatizzato e la tutela giuridica dello stesso devono essere non piu’ considerati marginali, ma al contrario come uno degli elementi piu’ importanti della riforma che viceversa ha sacrificato questo aspetto. Al di la’ di tutte le argomentazioni, la riforma del pubblico impiego privatizzato presenta un buco nero sul piano della tutela del dipendente nei confronti degli atti della p.a. per le considerazioni che abbiamo esposto.
Se questa tutela non e’ piena, molto, non soltanto qualcosa, nella riforma o nell’applicazione di essa, non va.-
Questo sistema, qualora la distinzione operata dal legislatore soltanto come schema generale tra atti organizzativi e atti gestionali sia intesa erroneamente in senso rigido, e’ profondamente ingiusto sia nei confronti dei dipendenti pubblici e quindi dei cittadini che nei confronti della stessa p.a.. Ma tale sistema puo’ essere riarmonizzato riconducendo la distinzione tra atti di organizzazione e atti di gestione nel senso di riconoscere gli effetti che comunque i primi riverberano sui secondi, con l’indispensabile ampliamento dell’area amministrativa e di giurisdizione amministrativa rispetto a quella privatistica(35)
In un’epoca in cui la tutela dei diritti appare fortunatamente ampliarsi tramite la giurisprudenza comunitaria e i principi contenuti nella Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, ormai confluiti nella Carta dei diritti fondamentali dell’UE , la diminuzione di area di difesa giuridica operata dalla tormentata privatizzazione del pubblico interesse, non puo’ che essere considerato un passo indietro del diritto.
Roma,13.9.2004 Maurizio Cerchiara
(1) Sugli aspetti costituzionali della privatizzazione cfr: Corte Cost. 30.7.1993, n. 359, Foro It., 1993, I, 3219; Corte Cost., 25.7.1996 n. 313, Foro It., 1996,I, 34; Corte Cost. 16.10.1997 n. 309, Giorn. di dir. amm., 1998,29, con nota di BALDANZA A. Sui numerosi profili di incostituzionalita’ della privatizzazione cfr.IEVA L., L’illegittimita’ e la nullita’ delle pseudo-procedure di riqualificazione del personale nel p.i., Giust. Amm., 2003, 854.
(2) C. St. Ad. Gen., 31.8.1992 n. 146, Riv. It. Dir. Lav., 1993,III, 24 ss. Si rammenta il principio evidenziato dal Consiglio di Stato nel parere del 31.8.1992 n. 146, quando quest’ultimo affermava che la c.d. privatizzazione non appariva possibile, poiche’ vi sarebbero stati alcuni aspetti per i quali la disciplina dell’impiego pubblico sarebbe risultata per sua natura differenziata da quella del lavoro privato.
(3) CARINCI, La riforma del pubblico impiego, Riv. Trim dir. Pubb., 1999, 193; BACCARINI,La giurisdizione ordinaria sui rapporti di pubblico impiego, Dir. Proc. Amm.,596-597; ; TRAVI, La giurisdizione civile nelle controversie di lavoro dei dipendenti della p.a., in Dir. Proc. Amm., 2000, 308 ss.; ORSI BATTAGLINI-CORPACI, Art. 2-Fonti, in La riforma dell’organizzazione dei rapporti di lavoro e del processo nelle amministrazioni pubbliche, in Le nuovi leggi civili commentate,1099, 1064 ss.; CARDI, Commento all’art. 1, in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo. Commento ai dlgs 31.3.1988 n. 80 e 29.10.1998 n. 387, a cura di Dall’Olio- Sassani, Milano, 2000. Sulla sussistenza o meno della figura dell’interesse legittimo nel p.i. privatizzato, DE ANGELIS L., Lavoro alle dipendenze delle p.a. e giurisdizione, ADL, 2000, p.560 e ss.
(4) MENCHINI S., La tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi nel p.i. privatizzato, Riv. Dir. Proc., 2002, p.435; DE ANGELIS L., cit., ADL, 2000, p.572 e ss.
(5)MENCHINI S., La tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi nel p.i. privatizzato, Riv. Dir. Proc., 2002, p.436; VIANELLO, Gli interessi legittimi nel p.i. privatizzato, Lav. Giur., 1999, 839 ss.
(6)CARDI, Commento all’art. 4, in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo. Commento ai dlgs 31.3.1988 n. 80 e 29.10.1998 n. 387, a cura di Dall’Olio- Sassoni, Milano, 2000; per la natura privatistica degli atti gestionali, NOVIELLO, Da un obiter della S.C. un raggio di sole sui collegi arbitrali di disciplina nel p.i. privatizzato; Giust. Civ., 1999, I, 2997; Tar Lazio, 25.5.1998, n. 2674, Tar, 1999, I, 71; Cons. St., IV, 8.6.2000 n. 3259, Guida al diritto, con nota di Lelli.; contra: Trib. Lamezia Terme, 9.9.1999, Giust. Civ., I, 3165; Pret. Pesaro, 8.10.1998, ivi, 1999,I, 906. Sul vincolo di scopo nell’attivita’ privata della p.a.: C. MARZUOLI, Principio di legalita’ e attivita’ di diritto privato della p.a., p. Giuffre’,Milano,1982, p.143 ss..; sul concetto di atti di alta amministrazione, Cons. St., IV, 10.11.2003, n. 7189 con nota di CREPALDI G., Cons. St., 2003, 3681.
(7) Contra BATTAGLINI A.O., Fonti normative e regime giuridico del rapporto di impiego con enti pubblici, Giorn. dir. lav. e di rel. ind., 1993. 464. Sugli aspetti costituzionali della privatizzazione cfr: Corte Cost. 30.7.1993, n. 359, Foro It., 1993, I, 3219; Corte Cost., 25.7.1996 n. 313, Foro It., 1996,I, 34; Corte Cost. 16.10.1997 n. 309, Giorn. di dir. amm., 1998,29, con nota di BALDANZA A. Sui numerosi profili di incostituzionalita’ della privatizzazione cfr.IEVA L., L’illegittimita’ e la nullita’ delle pseudo-procedure di riqualificazione del personale nel p.i., Giust. Amm., 2003, 854 (8)FORLENZA, La giurisdizione nelle controversie di lavoro, 132,: quest’ultimo, giustamente ritiene anche che la specialita’ della disciplina legale di atti amministrativi specifici non consente una loro equiparazione ai meri atti giuridici di diritto privato.
(9), TENORE V., APICELLA E.A., Corte di Cassazione e Consiglio di Stato in contrasto sulla natura attizia o ,contrattuale delle determinazioni datoriali nel rapporto di p.i. privatizzato, Foro Amm., 1999, 2164; CORPACI A., Controversie in materia di pubblico e ricorso straordinario al Presidente della repubblica: il Consiglio di Stato alla riconquista dei territori perduti, Lav. nelle p.a., 2000, n. 3/4, 461.
(10)Lo stesso D’ANTONA M., Autonomia negoziale, discrezionalita’ e vincolo di scopo nella contrattazione collettiva delle p.a., Arg. Dir. Lav., 1997, p.71, ammette che “la natura pubblica del datore di lavoro implica che la contrattazione collettiva sia “finalizzata” non “funzionalizzata“ al buon andamento, nel senso che i suoi esiti debbono essere funzionali alla missione dell’ente, alla migliore efficienza organizzativa con minori costi per la collettivita’ e agli interessi degli utenti. Ma di questo risultato complessivo rispondono i dirigenti, nell’ambito delle loro competenze e gli amministratori secondo le regole della democrazia politica e quelle del mandato; per una rassegna dei punti di criticita’ della riforma, ZOPPOLI L., Dieci anni di riforma del lavoro pubblico, Lav. nelle p.a., 2004, 751.
(11) Il MAZZAMUTO, Verso la giurisdizione esclusiva del giudice ordinario?, Giur. It., 1999, 1129, parla di un ambito seppur “ristretto” di atti amministrativi con una incidenza diretta sul rapporto di lavoro. Il CECCHELLA, La tutela giurisdizionale nella riforma del p.i., Riv. trim. dir. proc.civ., 1995, 1341, ritiene estrema la tesi del carattere privatistico degli atti della p.a. come se si trattasse degli atti di un datore di lavoro privato, ZOLI C., Amministrazione del rapporto e tutela delle posizioni soggettive dei dipendenti pubblici, Giorn. dir. lav e di rel. ind., 1993, 635, parla di provvedimenti amministrativi destinati ad incidere direttamente o indirettamente sui rapporti di lavoro”.
(12) Il percorso seguito e’ quello dello ZOLI C., cit, , Giorn. dir. lav e di rel. ind., 1993, 635 ss. L’autore ritiene invece dubbie, ai fini dell’applicazione del diritto amministrativo o del diritto civile alcune aree come tti che concludono le procedure di mobilita’,l’esercizio del potere disciplinare,nonche’” taluni aspetti del potere di controllo e del potere direttivo”.
(13)CARDI, Commento all’art. 4, in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo. Commento ai dlgs 31.3.1988 n. 80 e 29.10.1998 n. 387, a cura di Dall’Olio- Sassoni, Milano, 2000; cfr, BALLESTRERO, Brevi osservazioni sugli obiettivi della riforma del pubblico impiego e sulle ragioni della loro mancata realizzazione, in Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, L’Aquila, 31 maggio-1 giugno 1996, Milano, 1997, 234; DANIELE N. Problematiche della privatizzazione del p.i., Rass. Cons. St., 1997, 109.
(14)CARDI, Commento all’art. 4, in Amministrazioni pubbliche, lavoro, processo. Commento ai dlgs 31.3.1988 n. 80 e 29.10.1998 n. 387, a cura di Dall’Olio- Sassoni, Milano, 2000; cfr. MARESCA . Le trasformazioni dei rapporti di lavoro pubblico e il sistema delle fonti, in Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro, L’Aquila, 31 maggio-1 giugno 1996, Milano, 1997, 15; ZOLI C., Giorn. dir. lav e di rel. ind., 1993, 633. Per quanto attiene ai problemi che la privatizzazione ha comportato per la materia dei concorsi, cfr. , Cass. Sez. Un. 15.10.2003 n. 15403, Rivista Critica dir. Lav. N. 4/2003, p. 1027, con nota di MONTAGNA P. e NESPOR S.; Trib. Pisa, 4.12.2003, Lav. Nelle p.a., n. 6/2003, p.1249, con nota di DE NICOLA A.M.; SGARBI L., La Cassazione ci ripensa: sui concorsi interni ha giurisdizione il g.a., Lav. Nelle p.a., 2003,910, IEVA L., cit., Giust. Amm., 2003, 854.
(15) Contra, D’ANTONA M., Autonomia negoziale, discrezionalita’ e vincolo di scopo nella contrattazione collettiva delle p.a., Arg. Dir. Lav., 1997, p.45.
(16) Contra, D’ANTONA M., cit., Arg. Dir. Lav., 1997, p.44; GIANNINI M.S., Impiego pubblico:a) profili storici e teorici, Enc. Dir., XX, 293 ss.. Sul criterio della natura dell’attivita’ per verificarne la natura pubblica della stessa: MARZUOLI C., cit, Giuffre’, Milano, 1982, p.70.
(17) Cosi’ D’ANTONA M., cit., Arg. Dir. Lav., 1997, p.45.
(18) Cons. St. Ad. Gen. Parere 31.8.1992 n. 146, Foro It., 1993,III,4.Inoltre, BARBIERI E., Dipendente pubblico, dipendente privato e dipendente privatizzato, Mass. Giur. Lav., n. 12, p.1294: “ la parte pubblica di un qualsiasi rapporto
soggiace pur sempre nell’attuale ordinamento a regole speciali che non si possono abolire con semplici variazioni nominalistiche”; POZZI A., Privatizzazione del pubblico impiego, luci ed ombre, Enti Pubbl., n.5/1995.
(19)Cio’ e’ ammesso anche da D’ANTONA M., cit., p.48, anche per quanto riguarda la materia dei controlli. Lo stesso autore nel menzionato articolo (p.71,) ammette che “la natura pubblica del datore di lavoro implica che la contrattazione collettiva sia finalizzata, non funzionalizzata al buon andamento, nel senso che i suoi esiti debbono essere funzionali alla missione dell’ente, alla migliore efficienza organizzativa con minori costi per la collettivita’ e agli interessi degli utenti. Ma di questo risultato complessivo rispondono i dirigenti, nell’ambito delle loro competenze e gli amministratori secondo le regole della democrazia politica e quelle del mandato”. Anche il D’AURIA, G., Il nuovo p.i. e i controlli amministrativi, Giorn. di dir. lav. e di rel. ind., 1993, 330 ammette che il punto dolente, per lui, della riforma, sono i controlli, soprattutto quelli nei confronti dei dirigenti.
(20) Su questa problematica non si insiste, ma e’ chiaro che di fatto, per il dipendente oggi e’ difficilissimo ottenere un provvedimento di urgenza dinanzi al g.o., perche’ ha diversi presupposti, rispetto alla sospensione davanti al g.a. Cfr comunque: GARILLI A., Il riparto di giurisdizione tra organizzazione amministrativa e rapporto di lavoro, Lav. nelle p.a., 2000, 715; ZOPPOLI L., cit, Lav. nelle p.a., 2004, 7565, ammette che l’approccio del g.o. non “pare sinora, nell’insieme, all’altezza dello sforzo di modernizzazione espresso dal legislatore negli anni ‘90”.
(21) CECCHELLA C., La tutela giurisdizionale nella riforma del pubblico impiego, Riv. trim. dir. e proc. Civ., 1995, 1339. Su vari effetti negativi del sistema della doppia giurisdizione, MENCHINI S., La tutela dei diritti soggettivi e degli interessi legittimi nel p.i. privatizzato, Riv. Dir. Proc., 2002, p.445; VILLATA S.A. Controversie di p.i., arbitrato e disapplicazione degli atti amministrativi illegittimi, Riv. Dir. Proc., 200; con conclusioni diverse, TISCINI, Il rapporto di lavoro con le p.a. di fronte al g.o., Riv. Dir. Proc., 2000,467; SASSANI B. Problemi processuali della riforma del pubblico impiego, Riv. Dir. proc., 1993, 727. Sulla irrilevanza nella prospettazione del dipendente dinanzi al g.o. di atti prodromici: Cass. Sez. Un., Ord. 6.2.2003 n. 1807, Giust. Amm. ,n .2/2003, 537.
(22)MENCHINI S., cit., p.444, p. 455; sulle difficolta’ di applicazione della disapplicazione, SORDI P., Arg. Dir. Lav., 1999, p.180.
(23) Il CECCHELLA C., La tutela giurisdizionale nella riforma del pubblico impiego, Riv. Trim. dir. e proc. Civ., 1995, parla di “effetti perversi della colossale espropriazione di mezzi giurisdizionali ordita dal legislatore, con il beneficio dell’ignorantia, ai danni del pubblico impiegato.” Per quanto concerne altri disagevoli effetti della riforma che concernono sia le procedure concorsuali che i problemi di decorrenza dei termini: per entrambe cfr. SUPPIEJ G., Nove anni di travaglio del trapasso di giurisdizione per i lavoratori pubblici., Riv. It. Dir. Lav., 2001,I, 307, par. n. 5,7,8; APICELLA E.A., La disciplina transitoria del trasferimento al g.o. sulla controversie di lavoro con la p.a., Riv. Trim. dir. proc. civ., n. 2/1999, p.545; sulla insensibilita’ del g.o. alla cura del pubblico interesse, GAZ E., Pubblico impiego e giurisdizione: una riforma per via processuale, Riv. Amm., n. 2/3/2003, 159; Contra, nel senso che si ritiene addirittura che il ricorso la possibilita’ di esperire il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica non costituisca un arricchimento della tutela fruibile in materia, CORPACI A., Controversie . . . ,cit. , Lav. nelle p.a., 2000, n. 3-4, 461, Altre incongruenze della privatizzazione concernono l’esecuzione delle pronuncie: cfr: CORPACI A, La tutela giurisdizionale dei pubblici dipendenti, Giorn. di dir. Lav. E di rel. Ind., 1993, 626.
(24)D’ANTONA M. , cit, Arg. Dir. Lav., 1997, p.48.
(25)D’ANTONA M., cit., Arg. Dir. Lav., 1997, 71, vedi nota n.(17), secondo il quale del risultato complessivo organizzativo rispondono i dirigenti, nell’ambito delle loro competenze e gli amministratori secondo le regole della democrazia politica e quelle del mandato. Il problema dei dirigenti non e’ trattato in questo articolo: tuttavia, sulla auspicabile distinzione tra funzionario ed impiegato, come giustamente afferma il CARINCI F., cfr., Contratto e rapporto individuale di lavoro, Giorn. di dir. Lav. e di rel. Ind., 1993, 655.
(26)Contra: D’ANTONA M., cit, p.39; per lo ZOLI C., cit, 649 il g.o. tutelerebbe meglio il dipendente piuttosto che il g.a.
(27) Cosi’ LUNARDON F., Specialita’ del rapporto di lavoro e giurisdizione del g.o., Lav. Nelle p.a., 2003, p. 315 e ss.
(28) Che gran parte dell’attivita’ organizzativa sia stata ricondotta al diritto privato e’ confermato dal CORPACI, La giurisdizione dopo la seconda fase della riforma: novita’ e prima applicazione, Lav. nelle p.a., 1999, 1059 ss..
(29) Cass. Sez. Un. 28.1.1988 n. 747, Giust. Civ. Mass., 1988, 203; su tale aspetto, pero’ il SUPPIEJ G. , citato, nota 21, ricorda che in realta’ la tutelabilita’ con ricorso ai giudici amministrativi era piu’ che altro una affermazione teorica della Cassazione.
(30) Cfr, MASCHERONI E., Pubbl. imp. e riparto oggettivo di giurisdizione, GL, n. 18, p.116. L’articolo non si addentra sugli effetti della privatizzazione in generale, ma gli obiettivi di un miglioramento del livello di efficienza della p.a. e di un controllo/razionalizzazione dei costi del personale non sembrano entrambi realizzati: TULLINI P., Responsabilita’ del dirigente e nuova comunicazione giuridica, ADL, 2003, 491, mette in evidenza un bilancio negativa della riforma sotto in riferimento ai dirigenti; ancor piu’ incisivamente in ordine alla privatizzazione in generale ed in particolare per la materia concorsuale, IEVA L., cit., Giust. Amm., 2003, 854 .
(31) Sull’utilizzo dell’eccesso di potere anche in sede disapplicativa, DELL’OLIO M., La tutela dei diritti del dipendente pubblico dinanzi al g.o., Arg. Dir. Lav., 1999,p.134; cfr: Cass. 26.2.1996 n. 1491, Foro It. Rep., v. Lavoro(rapporto), n. 1058; ZOLI C, cit, Giorn. dir. lav. e di rel. ind., 1993, 634.
(32)D’ANTONA M. , citato, Arg. Dir. Lav., 1997,p. 73.
(33) Come giustamente afferma il CARINCI F., Contratto e rapporto individuale di lavoro, Giorn. di dir. Lav. e di rel. Ind., 1993, 658.
(34) Come fa BATTAGLINI A.O., Fonti normative e regime giuridico del rapporto di impiego con enti pubblici, Giorn. dir. lav. e di rel. ind., 1993, 461.
(35) Viaggia nel senso di tale armonizzazione, la pronuncia del Cons. di Stato che ritiene ammissibile il ricorso al Capo dello Stato da parte del dipendente pubblico: cfr n.8.
Questioni della sentenza. Preliminarmente vanno esaminate le questioni di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella presente controversia e di mancanza di interesse all’impugnazione dell’avv. Casella, proposte entrambe della Provincia di Salerno e di cui al primo motivo dell’appello.
Relativamente al difetto di giurisdizione, la censura è infondata.
Infatti, nella specie non si controverte sulla posizione personale dell’avv. Casella e sulla sua destinazione ad altro ufficio, nel qual caso verrebbe in evidenza, ai sensi del d. lgs. n. 165 del 2001, la giurisdizione ordinaria, ma si fa questione della legittimità o meno di un provvedimento di macro-organizzazione posto in essere dalla Provincia di Salerno, relativamente alla parte di esso che ha interessato l’Ufficio legale provinciale, a fronte del quale, a cui sono sottesi interessi di natura organizzatoria, non può che evidenziarsi una posizione di interesse legittimo e, conseguentemente, la giurisdizione del giudice amministrativo.
E’ verò, sì, che l’appellato (ricorrente in primo grado) tende a conseguire un risultato a lui personalmente favorevole, ma tale vicenda è solo una conseguenza ulteriore e in gran parte necessitata dalla riconduzione a legittimità del provvedimento di macro-organizzazione.
Per le stesse ragioni è infondata l’altra questione sulla inammissibilità del ricorso di primo grado, per non avere interesse l’avv. Casella all’annullamento del provvedimento impugnato, essendo stato comunque trasferito in un’altra posizione di pari livello dirigenziale, in quanto, come si è detto, il sopraddetto avv, Casella non fa questione, nella controversia azionata, di essere stato in qualche modo retrocesso di qualifica, ma del fatto che per mezzo di un provvedimento illegittimo, del quale chiede l’annullamento, è stato collocato in una posizione organizzatoria diversa da quella originaria.
Nel merito l’appello è infondato e va, conseguentemente, confermata la sentenza del giudice di primo grado.
In particolare, va respinto, il secondo motivo dell’appello, ovi si afferma che il potere di coordinamento e di sovrintendenza del direttore generale non tocca lo "ius postulandi".
Il che lascia francamente perplessi: certamente il direttore generale non tocca e non può toccare lo "ius postulandi", in quanto lo stesso è la esplicazione in concreto di una qualità giuridica, quella di essere abilitato a parlare davanti ai giudici, ma ciò che viene in rilievo è quella sottoposizione dell’Ufficio legale alle direttive e agli ordini del direttore generale, il quale, se certamente può intervenire a coordinare gli uffici (tutti gli uffici, anche quello legale), non può indubbiamente andare ad interferire sull’organizzazione interna degli stessi e sulle modalità di organizzazione del lavoro dei medesimi, innanzitutto perché si tratta di un’attività tecnica (in senso giuridico) e, poi, perché gli uffici legali degli enti pubblici, come si vedrà, anche nella motivazione successiva, devono necessariamente godere di quella particolare autonomia di pensiero e di organizzazione che sola può consentire l’esplicazione corretta e proficua della loro attività.
Infondato è anche il terzo motivo dell’appello, che poi è il motivo centrale di tutta la controversia, vale a dire che il potere di auto-organizzazione dell’Amministrazione è riferibile alla piena discrezionalità dell’Amministrazione ed esso non può essere censurato in sede di legittimità, in quanto altrimenti verrebbe vanificata quella potestà della pubblica amministrazione di darsi quell’organizzazione che ritiene più coerente per il raggiungimento degli interessi pubblici che le sono commessi dall’ordinamento in ciascuna fase storica.
Infatti, è vero e non può certo essere messo in discussione in questa sede che l’Amministrazione pubblica gode, ai sensi dell’art. 97 della Costituzione, di un ampio margine di auto-organizzazione degli uffici e del personale, il che è stato ulteriormente ribadito dalla legge n. 127 del 1997 che , nel modificare l’art. 51 della legge n. 142 del 1990, ha modificato la competenza ad adottare il regolamento degli uffici e dei servizi, attribuendolo (unico fra tutti i regolamenti) alla Giunta, proprio per porre in evidenza che la organizzazione degli uffici degli enti locali è vicenda operativa intrinsecamente collegata con il potere operativo e non può sottostare alle discussioni di un’approvazione assembleare.
Ma se ciò è vero, come è indubitabile, è anche vero che l’esercizio in concreto di tale discrezionalità non è senza limiti, altrimenti essa si tramuterebbe in una incondizionata licenza, senza alcun limite e senza alcuna possibilità di controllo.
Pertanto, pur nella notevole discrezionalità che caratterizza la materia, essa incontra due limiti: uno è quello della ragionevolezza, nel senso che, qualora si dovessero riscontrare patenti violazione dell’ordine logico e si dovesse individuare una organizzazione che non si presenta rispettosa dei principi di cui all’art. 97 Cost., allora l’esame del provvedimento di macro-organizzazione diventa non solo necessario, ma addirittura indispensabile; l’altro limite, si potrebbe dire, naturalmente, è quello del rispetto delle statuizioni esistenti e, in particolare, nel caso che interessa in questa sede, delle guarentigie attribuite a determinate categorie di soggetti operanti nell’ambito della pubblica amministrazione.
Nel caso di specie, non può non evidenziarsi che la normativa attualmente vigente (con particolare riferimento, oltre alla natura dell’attività tipica di un ufficio legale, ricavabile dal principi generali dell’ordinamento giuridico, dall’art. 3 del r.d. n. 1578 del 1933 e dall’art. 15, comma 2, della legge n. 70 del 1975) prevede che gli uffici legali degli enti pubblici devono godere di autonomia e di indipendenza, per cui, al di là delle scelte politiche, la parte squisitamente tecnica non può essere sottoposta né a condizionamenti, né a valutazioni che possano in qualche modo svilirne il modo di essere.
Indubbiamente, l’Ufficio legale è sempre un ufficio dell’Amministrazione e non può sottrarsi alle indicazioni degli organi di vertice, nel senso di agire al di fuori di quelle indicazioni, ma tali indicazioni non possono mai intaccare la visione autonoma delle vicende che sono sottoposte alla sua cognizione.
Mentre nella vicenda che interessa la presente fattispecie, si è assistito, non tanto all’allontanamento, del dirigente dell’Avvocatura, per il quale non vi è giurisdizione, ma soprattutto allo smembramento dell’Ufficio, che finisce di essere un vero e proprio ufficio legale, sia per la sottoposizione al coordinamento e alla sovrintendenza del direttore generale, come si è visto in precedenza, sia per la sottrazione dei pareri legali (affidati addirittura ad un ufficio archivio e protocollo), sia per la sottrazione del contenzioso in materia di controversie di lavoro, affidato al settore risorse umane, e sia, ancora, per l’affidamento all’ufficio legale in materia di costituzione in giudizio, di un mero parere amministrativo, mentre la tecnicità dell’ufficio prevederebbe invece un parere di natura tecnico-giuridica.
Come si vede, il provvedimento di macro-organizzazione della Provincia di Salerno, oltre a violare le guarentigie dell’Ufficio legale, si prospetta anche particolarmente perplesso, in ordine al raggiungimento degli interessi pubblici che sono collegati con un’attività di tipo giuridico e non può, conseguentemente, essere considerato legittimo.
Anche l’ultimo motivo dell’appello principale è infondato.
Va, infatti, precisato, che il rappresentante legale dell’ente manifesta la volontà di costituirsi in un eventuale giudizio, ma non può anche provvedere (né lui né la Giunta) alla nomina del difensore né interno, cosa che compete sicuramente al capo dell’ufficio legale, né esterno, vicenda che si articola, innanzitutto, in una dichiarazione che sussistono nella specie elementi per poter affidare la difesa tecnica all’esterno ad opera dell’ufficio legale e successiva nomina del difensore del libero foro, che compete necessariamente al capo dell’Ufficio legale, trattandosi, niente di più e niente di meno, di un vero e proprio contratto di prestazione intellettuale, ricadente come tale nelle attività gestionali di competenza dei dirigenti dell’Amministrazione.
Va, però, rigettato l’appello incidentale autonomo, in quanto le doglianze ivi precisate (mancata individuazione della figura dell’avvocato principale, riduzione dei compensi per gli avvocati dell’ente, e delle modalità di nomina del capo dell’Ufficio legale) trattandosi di attività operativa sulle cui scelte, in via potenziale, non possono essere formulate censure; le stesse potranno investire semmai i singoli provvedimenti applicativi se e quando saranno considerati illegittimi.
In conclusione, l’ appello principale va rigettato e così anche l’appello incidentale autonomo.
Le spese di giudizio della presente fase, considerata la novità e la particolarità della vicenda contenziosa, possono essere integralmente compensate fra tutte le parti in lite.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)
definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto,
Rigetta l’appello principale;
Rigetta l’appello incidentale;
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2011 con l'intervento dei magistrati:
Calogero Piscitello, Presidente
Vito Poli, Consigliere
Eugenio Mele, Consigliere, Estensore
Antonio Bianchi, Consigliere
Nicola Gaviano, Consigliere
DEPOSITATA IN SEGRETERIA il 14/02/2012.
Ringrazio per l’invito rivolto all’Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici e alla sottoscritta e poter così essere presente a questa splendida iniziativa, in questa meravigliosa cornice di Sicilia.
Un plauso particolare all’avv. Reina per ciò che è riuscito ad organizzare e a mettere a disposizione di tutti noi. Un momento di vero arricchimento.
Ciò costituisce per me un motivo di vero orgoglio.
Se a ciò si aggiunge che qui mi trovo in una duplice veste,
come rappresentante dell’avvocatura pubblica (in quanto dirigente di un’avvocatura comunale ed in quanto esponente dell’UNAEP),
e come professionista, in particolare professionista donna, che tra molte difficoltà, tale ci tiene essere e apparire, pur in un ambiente tipicamente maschile, senza omologazioni tese a far valere autorevolezza e professionalità, che -credo- si abbiano o no indipendentemente dal genere,
allora i motivi di orgoglio si moltiplicano.
L’UNAEP esiste da 40 anni, ma è negli ultimi 5-6 anni che ha ricevuto importanti suggelli, primo fra tutti il riconoscimento quale componente dell’Avvocatura a tutti gli effetti in occasione dell’ultimo Congresso Forense svoltosi a Genova, a cui ha ufficialmente partecipato con una propria Mozione, sottoscritta e inserita agli atti ufficiali del Congresso.
L’Avvocatura pubblica rappresentata da UNAEP, proprio grazie ai numerosi eventi promossi, ha destato l’interesse del CNF che, mediante stipula di convenzioni con la sua Scuola Superiore dell’Avvocatura, si è assicurata la nostra collaborazione facendoci sempre più affermare come realtà associativo-sindacale viva, operante ed affidabile. Oltre ai Convegni, ne sono la dimostrazione anche le numerose iniziative dispiegate a favore dei colleghi iscritti, che lo hanno richiesto, e le collaborazioni con i COA, in alcuni dei quali esprimiamo nostri Consiglieri. Ricordo fra tutti il COA di Roma ove abbiamo il Segretario e quello di Ancona. A ciò si aggiungono le relazioni stabili attivate con diversi parlamentari.
Queste le rapide premesse di tipo generale.
Oltre che in rappresentanza di UNAEP, dicevo, sono qui come avvocato e, in specie, pubblico dipendente. Infatti, mi onoro di appartenere ad una delle avvocature più antiche d’Italia, quella del Comune di Bologna, esistente con certezza sin dagli inizi dell’800 e, con “ragionevole” certezza, anche da prima. A quell’epoca vi era assegnato un “consulente legale”. E ciò ben prima della creazione organica dell’Avvocatura di Stato, avvenuta nel 1876 e quella di Roma nel 1894, per citare due esempi illustri.
Le nostre raccolte di giurisprudenza sono complete in ogni numero sin dal 1848, e dunque ben prima dell’unità d’Italia.
E’ curioso vedere come il mio Comune già si difendeva a quell’epoca in Corte d’Appello a mezzo dei propri legali organicamente incardinati.
Altrettanto curioso è scorrere uno dei primissimi regolamenti comunali del personale, del 1940, nel cui organico vi era 1 consulente legale e un sostituto legale, oppure in quello deliberato dal Consiglio Comunale il 18 luglio 1951, Sindaco il famoso Giuseppe Dozza (dal ‘45 al ‘66), ove si legge che le attribuzione dell’Ufficio Legale erano “consulenza, contenzioso, rappresentanza e difesa del Comune in tutte le cause e gli affari giudiziari in materia civile, penale e amministrativa”; e la pianta organica era così costituita: 1 consulente legale, 1 vice consulente legale, 3 sostituti legali di cui uno di 1^ classe, 2 applicati, 2 inservienti. Già allora si era più moderni di oggi: la distinzione era fondata sull’anzianità ed esperienza e non sulle qualifiche funzionali e la gerarchia.
D’altra parte tale fatto si pone in continuità con l’esistenza, nella mia città, della più antica Università del mondo, datata 1088, nata proprio come culla dei glossatori, ovvero dei giuristi e studiosi del diritto, che ricostruirono l’opera più importante di Giustiniano I di Bisanzio, il Corpus iuris civilis.
Non solo. La tradizione stessa comunale, molto forte dalle mie parti, fece sì che mentre in altre situazioni di nascenti università, per esempio a Parigi, le origini fossero legate alla Chiesa o all'autorità monarchica, a Bologna lo Studium rappresentò un esempio di scuola laica, basata su uno stretto rapporto tra Comune, giuristi e studenti. La vita dell'Università è sempre stata strettamente legata a quella della città e quella della città alla tradizione del diritto.
Dunque non poteva non essere così. Non poteva che essere comunale e a Bologna una delle più antiche avvocature. Stava scritto nella storia!
Terminata questa parentesi di curiosità storica, torno al tema stretto.
Il doppio status dell’avvocato dipendente: accanto al professionista c’è il dipendente.
Dall’angolo visuale che mi offre l’osservatorio “sindacale” UNAEP, ho potuto in questi oramai 6 anni toccare con mano i molteplici problemi che interessano la categoria.
Sono innumerevoli, ed annoierei tutti se dovessi soffermarmi nella loro singola disamina, quindi cercherò di rimanere solo sul tema più rilevante e di maggior interesse comune alla categoria professionale, libera o dipendente che sia, l’autonomia ed indipendenza della professione forense. Problema certamente avvertito di più nell’avvocatura dipendente che in quella libera. Ma non ci si deve illudere che il problema sia solo nostro: poiché la professione forense è unica, la lesione all’autonomia ed indipendenza arrecata anche ad un solo avvocato dipendente, è un vulnus per l’intera categoria!
Questo mio intervento non sarà conformista: non starò ad elencare sentenze amministrative o di Cassazione sulla necessità di garantire agli avvocati l’autonomia, l’indipendenza e l’estraneità dal resto della macchina amministrativa. Sono note e recepite dal CNF ai fini dell’iscrizione all’elenco speciale. E’ la legge del 1933 che lo prevede.
Dunque dovrebbe essere chiaro, senza neppure altri interventi del legislatore: è un mero problema di gerarchia delle fonti, per le quali una legge generale non può derogare una legge speciale.
Ciò che non è normale, è che per affermare tali principi -peraltro implicitamente di rango costituzionale- noi si debba far ricorso molto spesso all’Autorità giudiziaria. E’ un fatto che dovrebbe indignare tutti gli avvocati, in primo luogo i COA, anche da noi eletti.
E dovrebbe indignarsi anche la politica, poiché gli enti vengono oramai sempre condannati alle spese di soccombenza, con buona pace per la buona amministrazione!
Vorrei allora mantenere questa “chiacchierata” fra noi, un po’ a ruota libera, anticonformista!
E vorrei provare a dare una risposta al “perché” un’Avvocatura interna, autonoma ed indipendente?
La crescita degli enti, le riforme federaliste iniziate invero sin dalla modifica del Titolo V della Costituzione, la complessità dei compiti istituzionali ad essi affidati la rilevanza degli interessi, l’insostenibilità dei costi delle prestazioni professionali necessarie in via continuativa e non sporadica, la necessità inderogabile di contenimento della spesa pubblica, costituiscono alcune delle principali ragioni per le quali è quanto mai attuale e insostituibile l’assistenza legale specialistica negli affari pubblici.
Se si pensa alla quotidiana collaborazione fra le “parti” che operano a presidio dell’amministrazione della legalità e della giustizia (cioè giudici, avvocati del libero foro e avvocati pubblici), ecco che allora divengono elementi di grande importanza la costante presenza e disponibilità degli avvocati, la loro specializzazione, la loro “vicinanza al fatto”, i loro sforzi per la ricerca della “qualità amministrativa” dei provvedimenti posti in essere dagli enti, il tutto per il perseguimento del pubblico interesse e non il semplice interesse del proprio cliente; si pensi allo sforzo per evitare le difese ad oltranza, quando non giustificate, certamente non rispettose dell'interesse pubblico e della buona amministrazione, e il miglior utilizzo dei vari istituti deflattivi del contenzioso, quali l’autotutela, laddove possibile. Se manca autonomia decisionale ed indipendenza dalla politica e dall’amministrazione, tutto ciò rischia di essere vanificato.
Non possiamo e non vogliamo essere considerati figli illegittimi dalla “famiglia” forense, e meri “impiegati” dal nostro “cliente”.
Qui sta il punto. Qui dovrebbe risvegliarsi lo spirito di corpo. Un “corpo” è tale perché ogni sua parte è necessaria e quando una parte, anche piccola, viene compromessa o lesa, è l’intero corpo a soffrire.
E se manca la “massa critica” nessuno può pensare di vincere. E’ un principio vecchio come il mondo, è nella nostra tradizione romanistica il “disporsi a testuggine”, formare un corpo unito e compatto. E allora facciamolo. Abbandoniamo la politica “dell’orto” e guardiamo oltre.
Dico questo perché lo status di avvocato-dipendente è stato a lungo considerato come un quid minus sul piano professionale dai colleghi “liberi”, ed un quid pluris sul piano del rapporto di lavoro dai colleghi degli enti.
Mi spiego. In molti casi l’avvocato dipendente è stato vissuto primariamente come un dipendente e solo in seconda battuta come un avvocato. Ad esso veniva imputato di aver scelto una vita comoda, al riparo da rischi, negli agi delle ferie, della malattia, ecc., dimenticando, ad esempio, che l’avvocato dipendente, oltre all’esame di abilitazione al pari del collega libero, deve sostenere un concorso per accedere alla pubblica avvocatura. Concorsi -voglio ricordarlo- a cui molti colleghi del libero foro non superano, ripiegando sullo svolgimento dell’attività libera. Dimenticando che anche noi programmiamo le ferie in considerazione degli impegni professionali e non a prescindere. Dimenticando che i nostri orari di lavoro sono quelli dei colleghi liberi professionisti, perché non esiste un codice processuale per l’avvocato pubblico con termini dilatati!
Questo deve far riflettere: che non sia che dentro l’involucro di un dipendente si possa celare un professionista preparato, serio e fortemente specializzato?
Proprio sugli “agi” e la “comoda vita irresponsabile” del “dipendente avvocato”, come ha recentemente sostenuto un Giudice poco preparato sul tema e, per il quale, abbiamo già provveduto a segnalarne la mancanza di prestigio e sobrietà al Consiglio di Presidenza della Giustizia Amministrativa, desidero davvero sappiate -a due anni di distanza- che all’indomani del sisma dell’Aquila, i colleghi avvocati del Comune erano al lavoro, sotto le tende, per preparare le costituizioni e rispettare i termini per le sospensive al TAR di qualche giorno dopo, per il loro Comune gravemente offeso! Desidero sappiate che a Milano in quel terribile 18 aprile 2002, nel disastro aereo che colpì il Palazzo della Regione, chi rimase ucciso furono due colleghe avvocato, per il sol fatto che all’ora del disastro , oltre il normale orario di servizio, erano ancora al loro posto di lavoro!
Questi sono gli avvocati che rappresento. Questo è il nostro senso del dovere. Questa è la nostra professionalità! E’ bene conoscere queste cose per correttamente valutare. Altrimenti si parla del nulla.
In questa accezione l’Avvocatura pubblica vuole porsi: quale elemento specializzato, di “cerniera” fra i diversi protagonisti dell’azione amministrativa, dalla sua genesi al suo epilogo, seria e leale.
Essa vuole cioè proiettarsi sempre più nel futuro, nella modernizzazione della P.A., riappropriandosi del suo passato, ovvero delle motivazioni per le quali è “nata”: il bisogno di assicurare all'ente pubblico lo stabile consiglio di uomini (
e donne) di legge, avvertito come ho detto sin da epoca remota.
E mi avvio a concludere rendendo partecipe questa Assemblea di due ultimi aspetti: il primo è una “particolarità” che forse pochi conoscono, e l’altro è una “emozione”, che, come tale, nessuno può conoscere.
La particolarità.
Proprio l’avvocatura degli enti locali ha formato oggetto di una specifica analisi da parte di tre «saggi» (i prof. Cassese, amministrativista di Roma, Pizzorno, sociologo, e Arcidiacono, costituzionalista di questa illustre Università di Catania), chiamati a comporre il c.d. “Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione”, istituito dal Presidente della Camera dei Deputati Luciano Violante, con decreto n. 211 del 30.9.1996.
Il Rapporto che i tre professori hanno redatto sul tema (rammento che si usciva dalla palude lasciata da quel fenomeno patologico noto col nome di «Tangentopoli») è emblematico: «una delle ragioni principali della corruzione è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».
Questo abbiamo chiesto alla politica: il ruolo separato, come auspicato e consigliato dai illustri tre saggi citati, non da noi.
Ecco allora chiarito il ruolo che l’Avvocatura degli enti locali desidera offrire ai propri colleghi ed ai magistrati: il ruolo affidabile di baluardo della legittimità o, ancor di più, di nemica di chi attenta alla corruzione della P.A.
Desideriamo essere coloro che impediscono all’Amministrazione di esser più debole di quanto già non lo sia, di rendersi il più possibile impermeabile alle tentazioni di malaffare, contribuendo umilmente, quotidianamente, ma con professionalità, tenacia e dedizione al miglioramento della giustizia.
E passo all’emozione, che è un sentimento e quindi come tale nessuno può conoscere.
Credo che non si faccia l’avvocato perché non si sa cosa altro fare. Si sceglie.
Quando io ho scelto di essere un avvocato l’ho fatto con passione, con motivazione, e l’ho concretizzata quando ho prestato -convinta- il giuramento, diversi anni or sono, la cui formula periodicamente ripeto, dalla quale non prescindo, e che anche oggi voglio, ad alta voce, ricordare a me stessa:
<<Giuro di adempiere ai miei doveri professionali con lealtà, onore e diligenza, per i fini della Giustizia e per gli interessi superiori della Nazione>>.
Io, ancora oggi, e ancora una volta, sono qui, al servizio dell’Avvocatura e dei miei Colleghi, cui desidero dimostrare di esserci e di svolgere la mia funzione con serietà ed impegno.
Dignità, lealtà, decoro, per me non sono solo parole da pronunziare per abbellire l’argomento di conversazione: sono VALORI nei quali credo e che tengo da sempre come esempi del buon vivere.
A questi aggiungo il rispetto: a chiunque lo concedo e, ugualmente, da chiunque lo pretendo, senza sconto. Nella vita e nella professione.
RINGRAZIO TUTTI PER L’ATTENZIONE
In questi ultimi anni vi è stato un particolare “interessamento” da parte degli enti pubblici ad istituire “uffici legali interni” -a parte alcune realtà esistenti da oltre un secolo, come ad esempio Bologna e Roma- tant’è che il numero degli iscritti nell’elenco speciale supera oramai le 6000 unità, con un fortissimo balzo in avanti nell’ultimo decennio.
Ciò pare rispondere ad una esigenza sopra a tutte: consentire agli enti pubblici di disporre di propri organi tecnico-legali, a somiglianza dell’Avvocatura dello Stato, per lo svolgimento di funzioni professionali strettamente connesse con i meccanismi interni dell’amministrazione (la c.d. “aderenza e vicinanza al fatto”).
Un “interessamento” a doppio senso. Intendo cioè dire che anche da parte degli stessi avvocati dipendenti è sorta una maggior consapevolezza del proprio ruolo di fondamentale “cerniera” tra i diversi protagonisti del processo e di memoria storica della giurisprudenza dell’Ente.
Questa “primavera”, questo “risveglio”, ha tuttavia messo in luce un aspetto nevralgico: la mancanza di una disciplina sistematica, coerente e chiara del ruolo delle avvocature pubbliche e della posizione giuridica dell’avvocato, unico soggetto della P.A. sottoposto allo stesso tempo ai doveri del dipendente ed a quelli del professionista. Fatto, questo, che ha evidenziato, soprattutto negli ultimi anni, la molteplicità di problemi che tale doppio status comporta, in un ordinamento qual è quello attuale ove, in assenza di qualsivoglia norma disciplinante, occorre ricorrere troppo spesso al giudice per veder affermati diritti elementari, il quale oramai, in materia, ha soppiantato il legislatore.
Da qui la necessità per tutti di prestare la massima attenzione alla riforma dell’Avvocatura, ad oggi ferma in Commissione Giustizia alla Camera per problemi di
.precedenza, e di seguirne ognuno di noi in prima persona l’iter parlamentare, per cercare di fissare alcuni principi “cardine”, irrinunciabili per la chiarezza del nostro ruolo, previsto per ora solo in una generalizzata incompatibilità dell’esercizio professionale di cui all’art. 3, 2° comma, RDL 1578/1933. E’ noto, infatti, che solo al 4°comma, lettera b), è contenuta un’eccezione all’incompatibilità con impieghi retribuiti per gli avvocati degli uffici legali istituiti presso gli enti pubblici, con riferimento alle cause ed agli affari propri dell’ente presso il quale prestano la propria opera.
Una prima focalizzazione è già emergente:
da un lato, la supplenza giurisprudenziale (rispetto all’assenza di norme) ha oramai sancito in maniera pacifica e definitiva che l’esercizio di attività di natura forense del dipendente avvocato avviene nella pienezza della professione;
dall’altro, la specifica limitazione delle facoltà proprie del libero professionista, sussistendo in capo all’avvocato dipendente obblighi giuridici che gli scaturiscono dal rapporto di lavoro.
Se, allora, l’assenza di una norma di legge che disciplini la professione forense del pubblico dipendente costituisce il primo dei problemi, il secondo evidenziato, ovvero il conflitto tra autonomia e subordinazione, rappresenta un grande punto di debolezza, con ricadute sulla qualificazione dell’attività svolta, che rischia di incidere sulle ragioni principali «della debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali», che «costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finchè le Amministrazioni non abbiano superato questa loro debolezza».
Più volte è intervenuto il CNF proprio sul punto del particolare status dell’iscritto nell’elenco speciale e dell’impatto di questa singolarità con la disciplina deontologica e il rispetto degli obblighi, oneri e diritti che spettano ad ogni avvocato. Sino a qualche anno fa, a causa dell’interpretazione stricto sensu della norma, il CNF considerava tali professionisti una figura anomala, ma si badi bene, con riguardo al pubblico impiego e non un’anomalia rispetto all’avvocatura, dato che la norma considera i legali degli enti pubblici avvocati a tutti gli effetti, con la sola particolarità del “cliente unico” rappresentato dall’ente.
Quindi, ai sensi dell’odierno art., 3, RDL del ’33, la duplice veste dell’avvocato dipendente è:
quella “strumentale” di pubblico dipendente con le attribuzioni e conseguenze del rapporto d’impiego;
l’altra “essenziale” di avvocato, fornito di jus postulandi, anche se per un unico cliente.
Sempre il CNF ritiene questo secondo tratto (essenzialità) prevalente sulla strumentalità, perchè speciale nella sua rilevanza, rispetto a quello comune, generale dell’impiegato.
Per questi ed altri motivi -che non sto ad approfondire, ma solo elencare (rimborso iscrizione all’albo, oneri riflessi, autonomia e indipendenza, onorari di causa, orario di lavoro, contrattazione separata, ecc)- non è più procrastinabile un intervento riformatore organico, moderno, adeguato alle nuove caratteristiche delle amministrazioni in relazione alle attività professionali in esse esercitate ed adeguato altresì all’evoluzione della professione in genere.
Tanto premesso, se è vero che il dipendente avvocato è un avvocato a tutti gli effetti, e se è vero che soggiace al controllo ed al potere disciplinare del Consiglio dell’Ordine (oltre che del proprio datore di lavoro), egli è allora tenuto all’osservanza di ciò che impone il Codice deontologico, così come competente a procedere disciplinarmente in caso d’inosservanza è il Consiglio dell’Ordine presso il quale l’avvocato è iscritto. In più egli è tenuto anche all’osservanza del Codice di comportamento del pubblico impiego.
In materia di segretezza e riservatezza dell’avvocato dipendente, quale disciplina è prevalente?
Come individuare in tali casi un ragionevole punto di equilibrio tra la disciplina del segreto specifico del dipendente avvocato e il dovere di riservatezza generale che grava su tutti i dipendenti pubblici?
Occorre anche preliminarmente tenere conto che la funzione dell’avvocato assume una particolare collocazione all’interno della P.A., poiché detta funzione si svolge in contesti diversificati ratione materiae che vanno dal contenzioso (potenziale o in atto), alla consulenza in fase di adozione del singolo provvedimento, alla partecipazione a riunioni amministrative o politico-amministrative (cioè più propriamente riguardanti indirizzi generali dell’attività istituzionale).
In tali evenienze, il pubblico dipendente in generale e ancor di più l’avvocato dipendente nell’espletamento della propria funzione di avvocato dell’Ente, entra in possesso, ad esempio, di informazioni, notizie, documenti che possono avere anche carattere confidenziale o, comunque, non ufficiale, partecipando a riunioni o incontri preliminari o preparatori all’avvio di procedimenti.
Non si può trascurare che, a differenza del Collega del libero foro, ciò che prima abbiamo definito “aderenza e vicinanza al fatto” comporta che il coinvolgimento dell’avvocato dipendente può essere richiesto dalla struttura burocratica dell’Ente, senza formalità, e in fasi differenziate della formazione di un atto amministrativo, e cioè:
1 - in fase di istruttoria procedimentale, e dunque con funzioni di consulenza preventiva e/o endoprocedimentale (assistenza legale o parere legale);
2 - in fase intermedia fra la conclusione di un procedimento amministrativo e l’eventuale instaurazione di un giudizio, al fine di scongiurarlo o di articolare una strategia difensiva (assistenza precontenziosa);
3 - in fase contenziosa, per esercitare il diritto di difesa dell’amministrazione, protetto costituzionalmente.
Quest’ultimo caso -la fase contenziosa- è quello riporta ad unitarietà perfetta la categoria, atteggiandosi in modo uniforme.
Quid iuris, però, per le altre fasi non giudiziali, cioè quelle di assistenza alla formazione della volontà dell’Ente?
Poiché l’avvocato della P.A. è anche un dipendente, tra i doveri dell’impiegato in generale rientra legislativamente quello, fondamentale, di prestare la propria attività usando la diligenza richiesta dalla natura delle mansioni espletate.
Egli, al pari di tutti i dipendenti, è dunque tenuto al segreto d’ufficio (sanzionato nel caso dall’art. 326 c.p.), ossia a non divulgare fatti o notizie destinati a restare riservati, dei quali sia venuto a conoscenza a causa dell’adempimento delle sue funzioni (DPR n. 3/1957-TU pubb. Imp., sostituito dall’art. 28, L. 241/90, ss.mm.).
Ma, accanto a tali disposizioni generali, per gli avvocati vi è un quid pluris, cioè anche quanto stabilito dal codice deontologico forense, per il quale la riservatezza è corollario del principio di fedeltà nello svolgimento della propria funzione difensiva e viene definito “diritto/dovere”, secondo una doppia dimensione dell’espressione.
Ecco allora che il dovere/diritto di riservatezza per tutti gli avvocati, dipendenti o del libero foro, ruota intorno all’art. 9 del Codice deontologico (Dovere di segretezza e riservatezza, per il quale “È dovere, oltre che diritto, primario e fondamentale, dell’avvocato mantenere il segreto sull’attività prestata e su tutte le informazioni che siano a lui fornite dalla parte assistita o di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza del mandato”).
Dal testo della norma emergono alcuni aspetti centrali, su cui focalizzare la riflessione. In specie: diritto, dovere, mandato.
Come diritto trova espressione nell’art. 200 c.p.p., laddove stabilisce che l’avvocato non può essere obbligato a testimoniare su quanto conosciuto in ragione della propria professione, ministero o ufficio (anche se qui si dovrebbe ampliare il thema disputandum con la questione della testimonianza dell’avvocato pubblico, ma tempi e spazio non lo consentono).
Proseguendo, come dovere riguarda il segreto cui è comunque tenuto sia per l’attività giudiziale, che per quella stragiudiziale.
Infine, l’art. 9 fa rimerimento al mandato, la cui interpretazione letterale rimanda ad un atto formale del singolo “cliente” reso al proprio legale di fiducia, affinchè gli garantisca la miglior difesa, che, ad un’analisi superficiale, sembrerebbe complicare l’estensione al dipendente avvocato del precetto, poiché quest’ultimo non riceve -per alcune attività- un formale mandato come sempre avviene, invece, per la difesa in giudizio.
Se ciò è vero, i quesiti sembrerebbero di semplicissima soluzione, atteso che di norma l’avvocato del libero Foro è provvisto di incarico da parte del proprio cliente sin dall’inizio del rapporto, che deciderà autonomamente se svolgere con una prodromica attività consulenziale o diversamente. Ed al riguardo il tariffario forense prevede apposita “Tabella D - Stragiudiziale”. Sicché, potrebbe apparire che l’avvocato del libero foro è tenuto al segreto professionale anche in tale evenienza, mentre non l’avvocato dipendente, se non quello generale che permea il rapporto di lavoro.
Se però ci si interroga sul concetto di “mandato”, e sulla sua natura, a mio avviso, si giunge ad una diversa interpretazione. La ratio del “mandato” risiede nell’obbligazione assunta mediante la stipulazione di un contratto di prestazione d'opera intellettuale, con cui il professionista, assumendo l'incarico, si impegna ad espletare la sua attività onde porre in essere tutte le condizioni tecnicamente necessarie a consentire al cliente la realizzazione dello scopo perseguito (ma non il conseguimento effettivo di tale risultato). Si tratta, in sostanza, di un “contratto” con il quale ognuno degli svariati clienti impegna il professionista a “lavorare” per lui. Con un sillogismo si può allora sostenere che il rapporto instauratosi fra avvocato libero professionista e cliente, chiamato “mandato”, altro non è che un “contratto di lavoro”
se vogliamo, a tempo determinato.
Ebbene, se il ragionamento è condivisibile, poiché invece per l’avvocato dipendente il “cliente” è solo uno, il contratto mi pare rinvenibile nell’atto con cui l’Ente, in ragione del “contratto di lavoro”, lo ha assegnato all’ufficio legale, mediante il quale, quindi, gli ha conferito il “mandato” di fornirgli tutta la consulenza legale di cui ha bisogno.
Tecnicamente, poi, depongono a favore di questa ricostruzione alcune semplici ragioni.
La prima. L’attività consulenziale prestata dall’avvocato dipendente in pendenza di procedimento o in precedenza o in prevenzione, rientra fra i doveri connessi alla prestazione sinallagmatica per la quale egli è retribuito (come si è detto infatti costituisce una apposita sezione della tariffa forense). Dunque, poiché l’avvocato dipendente assume tale funzione solo a seguito dell’assegnazione ad un Ufficio Legale specificamente istituito (altrimenti non potrebbe ottenere l’iscrizione all’Elenco speciale annesso all’Albo), l’atto motivato di per sé può ritenersi costituire il “mandato” a svolgere le funzioni di competenza in esso indicate, che per l’avvocato dipendente sono in via generale e naturale quelle di consulenza legale (differentemente si atteggia invece lo jus postulandi, dovendo essere conferito in via speciale o ad acta).
Tanto premesso, occorre riallacciarsi a quanto detto in apertura, ovvero che gli iscritti all’Elenco speciale annesso all’Albo, pur contemplati quale eccezione dall’attuale art. 3 della Legge professionale forense, sono ad ogni effetto di legge avvocati, nel senso pieno del termine, senza alcuna differenziazione rispetto ai colleghi iscritti nell’Albo ordinario.
Tale precisazione è il fulcro del ragionamento, ribadito dalla costante giurisprudenza amministrativa, poiché ‘i professionisti che pongono la loro attività in modo stabile e continuativo al servizio degli Enti pubblici, partecipano ad un tempo dello status di dipendenti dell’Ente di appartenenza -con i diritti e i doveri che ne derivano, analogamente agli altri impiegati- e di quello di professionisti (sebbene non “liberi”) iscritti ad apposito Albo (o, come nel caso degli avvocati all’Elenco speciale ad esso annesso) e pertanto, al pari dei loro colleghi che esercitano la libera professione, sono tenuti al rispetto dei doveri, e alla conseguente assunzione di responsabilità, propri di tutti gli esercenti la professione’ (così, da ultimo, TAR Campania-Salerno, sez. II, ordinanza 15.05.2009, n. 443, Cons. St., V, ordinanza 30.7.2009, n. 3968, Cass., sez. un., 19 agosto 2009, n. 18359; Cons. St. 29.12.2009, n. 8870; Cons. St., V, 15.10.2009, n. 6336; Cons. Giust. Amm. Regione Siciliana, sez. giurisdizionale, 15.10.2009, n. 932).
Da ciò discende la seconda ragione.
A parte la collocazione organica in un Ente pubblico, l’avvocato dipendente è un avvocato: ciò fa sì che si estenda l’intero novero della disciplina professionale di riferimento, in termini di diritti e di doveri. Quanto ai diritti, questi si rinvengono nell’autonomia e nella indipendenza del ruolo rispetto alle possibili ingerenze dell’Amministrazione di appartenenza, con particolar riguardo a libertà di giudizio e a strategia di difesa; quanto ai doveri, ci si riferisce a quelli dettati dalla legge professionale forense nonché ai precetti del Codice deontologico forense.
Che tale assunto sia da considerarsi un dato giuridico acquisito, dovrebbe essere sufficiente a rasserenare il legislatore, attualmente intento ad aggiornare la legge professionale forense (approvata dal Senato ed ora all’esame della Camera), sulla necessarietà dell’art. 21 del disegno di legge e della minimale disciplina in esso contenuta.
Così come non può esserci dubbio che l’interpretazione dell’art. 9 del Codice deontologico abbia anche valori impliciti: si pensi ai casi in cui il cliente si sia rivolto all’avvocato rendendolo partecipe di informazioni, documenti, ecc., senza poi formalizzare l’incarico, oppure all’implicita estensione del segreto e della riservatezza a tutti i collaboratori e dipendenti dell’avvocato stesso.
Proprio l’estensività data all’interpretazione di tale norma fa sì che non sia dubbia neppure la sua applicazione agli avvocati dipendenti nell’espletamento della propria attività professionale. Ad avvalorare tale tesi, ovvero del mandato generale per l’attività di consulenza conferito con il provvedimento di assegnazione all’ufficio legale, vi è la più accreditata dottrina che ha addirittura rilevato che “il segreto professionale (tutelato in ogni professione e in ogni paese) non è stabilito nell’interesse né del cliente, né dei professionisti, ma nell’interesse pubblico”, concludendo con l’affermazione che “il grado di maturità democratica di un paese si misura dal modo con cui il diritto al segreto è assicurato” (Danovi, Commentario del Codice deontologico forense, Giuffrè, 2004).
Ebbene, ciò che più fortemente caratterizza l’avvocato dipendente della pubblica amministrazione dal collega del libero Foro sta tutta qui: egli opera primariamente per il perseguimento del pubblico interesse, e non il semplice interesse del proprio cliente.
Affermare che riformare le professioni è necessario, “è rock”. Sostenere che gli Ordini, tutti gli Ordini, sono caste, “è lento”. Affermare che l’avvocatura deve modernizzarsi, “è rock”. Dire che l’Ordine è un “pedaggio” da pagare mentre le Associazioni professionali sono la liberalizzazione, “è lento”.
Fuor di metafora, si sta assistendo alla “controriforma forense dell’emergenza economica”, prassi comune della nostra storia, caratterizzata da legislazione d’emergenza per la quotidianità. E’ un dato: si pensi, nell’ultimo decennio, alla necessità di misure eccezionali nel 2002 per entrare nell’Euro, e a quelle di oggi per non uscire dall’Euro, tanto per fare un esempio.
La situazione odierna porta a compiere parallelismi storici. In luogo di approvare la riforma forense, con la scusante dell'emergenza economica, si vuole in realtà “controriformare” la professione, mediante svolte filosofiche molto simili a quelle medievali: l’intolleranza nei confronti di quelle che vengono sdegnosamente (quanto impropriamente) definite "caste" (nel Medioevo erano appunto le "corporazioni"), e il controllo rigido dei comportamenti individuali e collettivi di quelle componenti della società ritenute una minaccia per la concorrenza.
Sempre per giocare con parallelismi e metafore, nel Medioevo l'ostilità trovava sfogo nella distruzione di libri (ricordiamo “Il nome della Rosa”), perché ritenuti profani, o nell'eliminazione fisica dei soggetti scomodi, delle donne seducenti (streghe), in quanto ritenuti “oggetti” irraggiungibili dalla pluralità, a disposizioni di ristrettissime categorie di persone, mentre ora ci ritroviamo a fare i conti con la stessa ostilità che vorrebbe trovare sfogo nella distruzione degli Ordini, ritenuti custodi di una casta chiusa ed ottusa.
Il filo conduttore è quindi la "distruzione". Meglio cancellare. Il lavoro del "riformatore" è più faticoso. E' quello di partire dalla storia per correggerne gli errori e guardare al futuro. La "riforma" serve a mettere a fuoco elementi di trasformazione resi necessari dall'evoluzione sociale. Più facile quello del "controriformatore", che rifiuta radicalmente qualsiasi modifica in senso modernizzatore, sino a giungere alla distruzione dell'oggetto o soggetto considerato.
Non la "riforma" che da 60 anni si chiede, ma la "controriforma", che congeda definitivamente ciò che non si vuole approfondire. E infatti la "riforma forense", il cui iter legislativo si è formalmente concluso, necessiterebbe del solo voto assembleare della Camera.
"Controriforma" che traspare dalla previsione di scadenze inderogabili pena l'eliminazione degli Ordini, peraltro esistenti in tutti i Paesi dell'Unione Europea.
E dunque, più che miglioramento della qualità e della concorrenza, si otterrebbe l'opposta svalorizzazione della funzione economica e sociale della professione. Infatti, chi vigilerebbe sui requisiti soggettivi/oggettivi/morali per lo svolgimento della professione? Rammento che per l'iscrizione all'Albo è necessario presentare certificazione di "condotta specchiatissima ed illibata".... Comprendo che oggi sono valori vintage!
Sorprendono le motivazioni addotte a sostegno dell'avversione per gli Ordini, così come vederne i teorici, per lo più editorialisti che si ergono a censori o, addirittura, detrattori, definendo "parassiti e privilegiati" i gruppi di professionisti i cui “privilegi” frenerebbero lo sviluppo, bloccherebbero la crescita, l'innovazione e la ricerca. Non l’eccessivo indebitamento, non la ridotta capacità di crescita del PIL, non la rigidità politica dell’Europa o la rissosità di quella interna. No, l'Italia con i suoi Ordini è una anomalia, poiché "in parte liberale e in parte strutturata per gilde di tipo feudale" con i privilegi che seguono chi ne è parte...e ciò costituisce una "palla al piede".
Quali privilegi non si sa, anzi, l’on. Nino Lo Presti, esperto indiscusso di professioni, ha avuto modo di recente di precisare che “l’avvocatura non è categoria di privilegiati, i redditi sono in calo e il futuro sempre più incerto” per i numerosi iscritti under 50, che non riescono a raggiungere livelli minimi di dignità, dato che l’ordine forense non è contingentato, e dunque non può essere ritenuto una casta.
V’è poi da dire che in tutti i paesi dell'Europa esiste l’Ordini degli avvocati (Germania, Francia, Finlandia con il suo Finnish Bar Association, Belgio, ove addirittura due sono gli Ordini, quello fiammingo e quello francese, Grecia, Portogallo, Spagna, Svezia, Olanda, Inghilterra, Olanda, Svizzera e, persino, il Consiglio degli Ordini Forensi della Comunità Europea), compreso il Regno Unito, cui si vorrebbe far riferimento per la costituzione di società di capitali tra professionisti e non professionisti. Anzi, la peculiarità dell’Inghilterra e dei paesi anglosassoni, a ben vedere ci somiglia. Infatti, tali società possono esistere solo per la tipologia dei numerosi "solicitors", ovvero coloro che non possono difendere in udienza (se non nei tribunali minori, come avviene per i Giudici di Pace, in cui la parte può stare personalmente), bensì esercitare come agenti immobiliari o notai. E' invece preclusa ai pochi "barristers", gli avvocati veri e propri, gli unici a poter svolgere attività di difesa nelle varie Corti. IE qui pure esiste l'Ordine nazionale dei Barristers.
Ciò in cui deteniamo un primato europeo è che siamo gli unici ad avere una legge professionale ferma al 1933!!!
240.000 avvocati sono troppi, è vero, ma non diminuirebbero abolendo gli Ordini o gli esami d’accesso. Bisogna invece guardare alle vere sacche di privilegio entro le professioni, partendo a monte del problema, in due direzioni.
La prima, incentrata sui giovani: dall'Università, che si è ridotta a raccoglitore raccogliticcio di tutti coloro che non superano i tests delle facoltà a numero chiuso; al tirocinio, da rendere senz’altro più breve, ma più serio e più formativo, pagandolo, non abolendolo, motivando i giovani colleghi, non illudendoli.
Quale futuro potrebbero avere giovani avvocati che speravano di superare i tests di medicina o di architettura, e sono invece catapultati nella professione in quantità industriali? Quale autonomia o indipendenza potrebbe mai avere un giovane avvocato assunto in una società di capitali, ove il socio di maggioranza (o anche minoranza) è un non avvocato? Quale deontologia, decoro e probità trasmetterebbe loro? E il segreto professionale che vincola in uno stretto rapporto fiduciario cliente e avvocato? E dalla concorrenza con masse di avvocati, quali sbocchi economici il nostro giovane potrebbe mai raggiungere? E quale motivazione, in tali scenari, potrebbe mai trarre? Economica? Passione?
La seconda direzioni dovrebbe riguardare l’eliminazione degli extra moenia: l’avvocato deve svolgere la sua professione a tempo pieno, da libero professionista o da dipendente.
L’impressione è che, come spesso accade, piuttosto che riformare, si tenda a fare piccoli aggiustamenti e grandi proclami sul cambiare tutto perché non cambi niente!
Fatte queste premesse, occorre allargare la visuale e sgombrare il campo dagli inutili pregiudizi. Nell’enorme esercito degli avvocati italiani, vi è un drappello di opliti, gli avvocati dipendenti di enti pubblici, che costituisce un blocco “male equipaggiato”
sul piano normativo, ma coraggioso e scelto, che quotidianamente lavora con passione perché la legalità dell’agire amministrativo prevalga, nell’interesse non solo del proprio cliente (ente pubblico), ma in quello superiore che è l’interesse pubblico.
Rammento che, al riguardo, l’on. Nino Lo Presti ha recentemente sostenuto che “per gli avvocati degli enti pubblici, l’impegno del Parlamento è quello di definirne una volta per tutte, nell’ambito della riforma della professione forense, il ruolo, l’autonomia e il trattamento, dovendosi salvaguardare, infatti, l’imprescindibile e preziosa funzione che gli avvocati pubblici svolgono a presidio della legalità nell’interesse sia delle pubbliche amministrazioni, sia dei cittadini che entrano in contatto con esse”. Infatti, grazie a Lo Presti, la "riforma" giacente alla Camera contiene per la prima volta una norma specifica dedicata agli "Avvocati degli enti pubblici", l'art. 22.
E proprio nell’ottica del contenimento dei costi, preme sottolineare come le avvocature pubbliche costituiscano una fonte di ampi risparmi di denaro pubblico. Il particolare, oggi non va certo sottovalutato. Anzi, andrebbe coltivato e approfondito, come ha avuto la vivacità intellettuale di fare l’on. Nino Lo Presti.
Egli, anche in un recente Convegno sulla Pubblica Avvocatura svoltosi a Palermo, ha avuto modo di approfondire un pensiero, a lui abbozzato dall’Associazione degli avvocati pubblici, che, partendo dall’analisi dell’Avvocatura dello Stato, fonda le basi nella comune funzione dell'Avvocatura pubblica, che è quella di essere istituzionalmente preposta alla tutela legale di pubbliche amministrazioni. E' così per l'Avvocatura dello Stato, è così per l'Avvocatura degli enti diversi dallo Stato.
La necessità di dotarsi in Italia di tali strutture si inserisce nel momento storico successivo ai moti risorgimentali ed alla nascita del Regno d'Italia, e ciò sia per l'Avvocatura dello Stato, fondata nel 1876 con la denominazione di Regia Avvocatura Erariale, che per Avvocature municipali come Bologna, Roma e Napoli.
In contemporanea con la disciplina della professione forense, nel 1933, appunto, l'Avvocatura erariale ha ricevuto la propria disciplina di ruolo, funzioni e struttura, mentre le altre avvocature erariali locali non hanno ricevuto alcuna disciplina, restando ascritte a quel particolare interspazio esistente fra l'Avvocatura e il libero Foro, chiamato “eccezione all’incompatibilità”..
Eppure l'esigenza era quella, identica, di creare figure professionali esperte e settorializzate, dedicate alla conoscenza costante delle nuove tipologie di contenzioso nascenti dall’intensificazione legislativa.
E qui il ragionamento dell’on. Nino Lo Presti, da grande conoscitore dei “risvolti” dell’Avvocatura pubblica: che senso ha avere tante avvocature erariali (parastato, regioni, enti locali, università, ex municipalizzate, società interamente pubbliche, stato). Forse, proprio prendendo le mosse dall'emergenza economica che stiamo vivendo, si potrebbe creare un mutamento sostanziale di direzione: a fianco dell'Avvocatura dello Stato potrebbe sorgere l'Avvocatura degli enti diversi dallo Stato, con la previsione anche per esse del foro erariale. La struttura, infatti, potrebbe anticipare e, in qualche modo, intersecarsi con la riforma che vuole la soppressione delle Province e l’assorbimento del relativo personale, creando "avvocature distrettuali" per sedi di Corte d'Appello ed "avvocatura generale" a Roma presso l'Avvocatura di Roma capitale.
La contrazione di costi sarebbe enorme: all'Avvocatura generale spetterebbe la rappresentanza e difesa delle amministrazioni pubbliche nei giudizi davanti alla Corte costituzionale, alla Corte di Cassazione, al Tribunale superiore delle acque pubbliche, alle altre supreme giurisdizioni, anche amministrative, ed ai collegi arbitrali con sede in Roma, nonché nei procedimenti innanzi a collegi internazionali o comunitari; mentre alle avvocature distrettuali spetterebbe la rappresentanza e difesa in giudizio delle amministrazioni nelle rispettive circoscrizioni.
Le funzioni resterebbero le stesse: contenziosa e consultiva, entrambe, negli ultimi decenni, sviluppate secondo un trend di crescita quantitativamente e quantitativamente esponenziale.
Le condizioni contrattuali e giuridiche rimarrebbero invariate, collocando gli avvocati in un’area di contrattazione separata ma in fasce corrispondenti a quelle rivestite. Il tutto, quindi, a costo zero e ampia resa, poiché vi sarebbero ingenti risparmi in costose consulenze assorbite secondo il meccanismo dell’in house.
Confortano le parole del presidente della Camera Gianfranco Fini, che in occasione della cerimonia per la consegna delle toghe d’oro (a Napoli), avvenuta a fine anno, ha sottolineato “la centralità della salvaguardia dell'indipendenza dell'avvocato anche attraverso la difesa di strumenti di autonomia quali lo stesso modello ordinistico. Mi sembra auspicabile” - ha aggiunto - “che al momento di intervenire sulle condizioni di esercizio dell'avvocatura si proceda con la massima consapevolezza delle funzione sociale e costituzionale della professione forense”. Ha infine evidenziato “lo stretto legame esistente tra efficienza del 'sistema giustizia' e sviluppo economico debba essere affrontato senza chiusure pregiudiziali da parte dei vari attori istituzionali, nell'ottica di perseguire un equilibrio www.filodiritto.itragionevole tra contenimento dei costi e celerità dei procedimenti, tenendo nella dovuta considerazioni gli apporti e le riflessione della classe forense”.
Nella stessa direzione vanno le parole dell’on. Nino Lo Presti, il quale ha in più occasione chiarito che “si impegnerà per vagliare con attenzione il ddl di riforma forense, al fine di individuare formule di rilancio dell’avvocatura senza stravolgerne l’autonomia, che è il punto cardine della professione”.
E’ qui che l’Avvocatura pubblica desidera porsi per dare un contributo fattivo, oltre che a difesa della legalità della P.A., anche quale elemento modernizzatore di essa, nel perseguimento di quel “ragionevole contenimento dei costi” a qualità invariata o accresciuta, auspicato dal Presidente Fini, ma per farlo deve uscire dalla anomia in cui per troppo tempo è stata lasciata, per disattenzione del legislatore.
(Avv. Antonella Trentini)
Vice Presidente UNAEP
Unione Nazionale Avvocati Enti Pubblici
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